Afterhours
Che gioia per il vostro recensore
scrivere di un disco così. Bello certo, ma soprattutto vario, vivo, libero.
Mentre tutti eravamo pronti ad apporre per la prima volta la parola “ennesimo”
sul sesto disco in italiano degli Afterhours,
ecco che Agnelli e compagni se ne escono con un lavoro non rivoluzionario, ma
quasi. Un album importante e di successo come “Ballate per piccole iene” pareva
aver chiuso un ciclo, nel senso che gli Afterhours in quella direzione più di
così non potevano fare – a parte scrivere altre grandi canzoni, è ovvio. E
difatti si cambia. A partire dalla formazione: dentro Giorgio Ciccarelli in
pianta stabile, dentro un nuovo bassista (Roberto Dell’Era al posto del
dimissionario Andrea Viti) e dentro soprattutto il Mariposa Enrico Gabrielli
coi suoi fiati che qui fanno spesso il paio con le chitarre elettriche.
Un lavoro da perdercisi dentro
per la quantità di generi, influenze o semplici stimoli sonori I milanesi ammazzano il sabato. Gli
Afterhours riassumono quanto fatto in passato ed espandono il loro campo
d’azione, il tutto con uno spirito della serie “facciamo assolutamente quello
che ci pare”. Cercate quante e quali canzoni potrebbero stare anche in questo o
quel disco della loro discografia e poi scorgete quel qualcosa in più che le fa
rimanere inevitabilmente nei solchi di questo lavoro, a comporre un nucleo
eterogeneo di quattordici tracce che potrebbe essere il brodo primordiale di
chissà quale giovane ed entusiasta band se non stessimo in realtà parlando di
uno dei gruppi storici del rock italiano.
Le bordate elettriche con
chitarre furiose, violino strepitante e ritornelli a presa rapida di Neppure carne da cannone per Dio
(perfetta dal vivo, insieme ad altre quattro tracce che sul palco sapranno cosa
fare) fanno da contraltare al crudo realismo acustico della title-track scritta
con Cesare Malfatti dei La Crus e di
una Musa di nessuno farcita da
svolazzi di fiati beatlesiani. Tarantella
all’inazione, punta di diamante dell’intero disco, ipotizza cosa possa
essere un sensato episodio etno-rock sostituendo qualsiasi chincaglieria
d’accatto con tonalità di luce livida (ma non così livida come un tempo),
mentre E’ solo febbre smonta e rimonta
orchestrazioni contemporanee e canoni da rock-ballad. Verso la conclusione Dove si va da qui con batteria
elettronica, rhodes ipnotico e baldoria di elettriche in coda prova a rivitalizzare
un ovvio prestito dai Radiohead riuscendoci in pieno. E su tutto quanto i testi
di Manuel Agnelli, che come mai era accaduto lascia emergere nitida la propria
biografia posizionando ovunque versi urticanti come una secchiata di calce viva
in faccia, mentre ancora siamo stupiti per la freschezza e il gusto della
svolta.
01. Naufragio sull’isola del tesoro
02. È solo febbre
03. Neppure carne da cannone per Dio
04. Tarantella all’inazione
05. Pochi istanti nella lavatrice
06. I milanesi ammazzano il sabato
07. Riprendere Berlino
08. Tutti gli uomini del presidente
09. Musa di nessuno
10. Tema: la mia città
11. È dura essere Silvan
12. Dove si va da qui
13. Tutto domani
14. Orchi e streghe sono soli
Manuel Agnelli:
voce, chitarra elettrica, chitarra noise, chitarra acustica, slide, pianoforte,
hammond, mellotron
Giorgio Ciccarelli:
chitarra elettrica, chitarra e-bow, e-bow su acustica, tapping delay
Enrico Gabrielli:
fiati, flauto a coulisse, clarinetto basso, sax, sax tenore, sax contralto,
tromba, orchestrazione, pianoforte, tiger, fender rhodes, hammond,
glockenspiel, silofono S2X, campanaccio, kazoom, metallotoni, armonie, cori
Dario Ciffo:
violino elettrico, chitarra elettrica, chitarra reverse
Giorgio Prette:
batteria, timpani, batteria distorta
Roberto Dell’Era:
basso, basso distorto, armonie, cori
John Parish: fender rhodes distorto, leslie
Brian Ritchie:
basso acustico
Cesare Malfatti: chitarra
acustica, chitarra noise, timpani, tablas, tamburello, batteria elettronica
Greg Dulli:
chitarra noise, chitarra acustica
Stef Kamil Carlens:
percussioni, armonie, cori