Cristina Meschia
La ricchezza dei dialetti descrive l’Italia come un mosaico formatosi nei secoli, come un insieme di culture differenti che hanno contribuito a rendere manifesto un interesse storico mai sopito da parte degli studiosi, e mai dimenticato dai turisti che aggiornano costantemente itinerari nel Paese delle cento città. La Repubblica, sin dalla nascita, per sua stessa natura, ha sempre teso ad unificare le tante varietà storiche e culturali delle regioni, e con l’ausilio della scuola, e in seguito a metà degli anni Cinquanta, della televisione, ha spostato questa unificazione anche sul piano linguistico.
Tenendo da parte le odierne becere mire e strumentalizzazioni politiche che tendono sempre più a mettere contro queste differenze invece che valorizzarle come fattori di arricchimento culturale complessivo, va riconosciuto alla musica. Alla canzone “in lingua” va il merito di conservare e nuovamente diffondere il sentimento genuino di tante terre, facendone rivivere la cadenza, il peso e la misura delle parole, i suoni così profondamente viscerali, che spesso nei testi raccontano i passaggi festosi e dolorosi che tanti territori hanno vissuto, e giustamente cercato di fermare in una canzone o in uno scritto. Quando questo lavoro diventa un disco siamo di fronte a un’opera doppiamente meritoria. Questi dischi, fuori dalle mode del momento, hanno un valore che va oltre la musica stessa, confrontandosi con la storia e la memoria senza rinunciare all’arte. Ognuno a seconda della propria provenienza geografica conosce meglio un dialetto, una lingua, e spesso per pigrizia resta fuori dal cogliere fino in fondo le sfumature e i significati di tutti gli altri. Bisogna sforzarsi, provarci, per goderne dei benefici. Sono canti di libertà, d’amore, di fatica, di lavoro, sono storie di vita quotidiana di popoli che si raccontano e si fanno raccontare, sono patrimonio collettivo. Un paese è anche, forse soprattutto, la somma di tutto questo.
Questa lunga premessa in realtà già parla a fondo del disco di Cristina Meschia, che con una voce delicata e autorevole tratteggia momenti, storie, persone e paesaggi, perfettamente accompagnata da un suono preciso e accattivante. Il risultato è un viaggio in una macchina del tempo che sfiora e fa vedere da vicino la guerra, la lotta per la libertà, l’amore e la speranza, con la leggerezza di chi ha visto per poter raccontare. A volte, tra le pieghe impolverate del passato si può intravedere anche tanto futuro.
La valenza sperimentale, antropologica, di ricerca, di recupero e di reinterpretazione, non solo non toglie nulla alla tradizione ma casomai aggiunge, in sensibilità, gusto e memoria. Il confronto col territorio, in questo caso lombardo mostra il percorso e lo studio dell’autrice che si misura elegantemente con una scuola radicata da Svampa a Jannacci, alla tradizioni dei canti delle mondine. Le nove tracce di Inverna ( il vento che nella buona stagione si alza ogni giorno dalla Pianura lombarda e risale il lago per tutta la sua lunghezza ) rappresentano una tappa importante e qualitativa nel percorso della musicista di Verbania, che certamente continuerà a guidarci in itinerari interessanti, a partire da quelli contadini, per molti versi ormai scomparsi almeno in quelle modalità.
01. E l’era tardi
02. Bèll usellìn del bosch
03. O mamma la mè mamma il muratore
04. Povre Filandere
05. Bella Ciao delle mondine
06. El Pover Luisin
07. Senti le rane che cantano
08. De tant piscinìn che l’era
09. Gh’è anmò on quaivun
Cristina Meschia: voce - Gianluca Tagliazucchi: piano - Riccardo Fioravanti: contrabbasso e basso elettrico - Marco Moro: flauto - Manuel Zigante: violoncello - Umberto Fantini: violino - Julyo Fortunato: fisarmonica, ukulele, vibrandoneon - Gilson Silveira: percussioni -
Special Guest: Alessio Menconi : chitarre