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Francesco Motta

La fine dei vent’anni

Ha una voce potente, diretta, riconoscibile, poco accomodante. Di rassicurante ha poco o nulla, è stridula a tratti, buttata fuori senza troppo preoccuparsi di calibrarla o adattarla alle parole pronunciate; così, non morbida, per nulla accogliente. Si prende la sua funzione al primo brano e non la molla fino all’ultimo, è poco altro se non un mezzo (ben utilizzato sia inteso). Un mezzo per cosa? Credo sia esattamente lì il motivo del successo di Francesco Motta (paroliere e voce dei Criminal Jokers, tra i collaboratori negl’anni di Nada, Pan del Diavolo, Zen Circus e Giovanni Truppi) e del suo La fine dei 20 anni, album uscito a marzo 2016 e premiato ora con la Targa Tenco alla miglior opera prima.

Questo disco è completamente immerso in questo tempo, non forzatamente come alla ruffiana ricerca di storie convincenti da raccontare, ma ci nuota dentro. Anzi, quasi ci affoga. All’interno dei dieci brani dell’album tutti questi anni assieme, un po’ incasinati che anche a concentrarsi non si scorgono i confini. Caotici, liquidi, svogliati, fragili e arrabbiati. Facile definirlo disco generazionale, ma al di là di un aggettivo forse troppo abusato, questa decina di canzoni parlano del nostro universo contemporaneo senza giudicarlo, senza punti di vista, senza inquadrature particolari, che giocano a mostrare pezzi di scena lasciando il resto in una zona d’ombra. Sembrano, questi brani, essere come una camera fissa, in un movimento di macchina che crea carrellate laterali, verso destra e verso sinistra, quasi mai verso il fondo. Scelgono, credo inconsciamente, di inquadrare il tutto (la vita e quello che ci gira attorno) senza angolature, mai dall’alto o da lontano, ma da vicinissimo. Viene eliminato così quasi del tutto l’elemento della profondità, che sia spaziale o temporale. Come se esistessero solo tre dimensioni: avanti e indietro, nel luogo; e l’istante presente, nel tempo.

Nel riprendere quello che è oggi avere trent’anni, quasi con una sola funzione descrittiva, e quindi l’amara sensazione di essere sempre in lotta col mondo («di alzarmi non ho voglia/oggi non combatto con nessuno»), tutto quello che finisce con cui ci tocca fare i conti («prenditi quello che vuoi/poi lo dimenticherai»), il distacco/la distanza dalle cose, pur essendoci dentro fino al collo, che ci viene naturale prendere per sopravvivere, le ferite («quello che ho sbagliato non è servito a niente»), l’essere continuamente in bilico senza nessuna certezza («ti sei abituata alle perplessità»), ecco, nell’inquadrare i trent’anni viene facile mettere muri e distanze con chi oggi è lontano da quella porzione di età e di tempo «l’amore per loro è aspettare insieme la fine delle cose» (E per noi? Che cosa è invece per noi l’amore?). «Amico mio sono anni che ti dico andiamo via» cos’è se non una frase di questa generazione (la mia, come certo forse lo è stata per le mille passate) che si incastra alla perfezione nelle vite di tutti noi, che alla fine non andiamo mai da nessuna parte perché ci manca il coraggio di lasciare e cambiare e allora ci raccontiamo che «abbiamo sempre qualcuno da salvare e da baciare». Poche domande, questioni esistenziali, davvero poco dolore urlato, o passioni, disperazione, grandi slanci, tristezza, malinconia, orizzonti ampi; non c’è uno sguardo nel dopo, nell’avanti nel tempo. C’è solo l’ora, oggi, e la sua rabbia/desolazione con cui fare i conti.

E se la canzone d’autore contemporanea deve fare qualcosa forse è proprio quello che fa questo disco, ricominciare a raccontare gli stati d’animo senza però appoggiarsi su stilemi vecchi, ché di Guccini non ne nascono più. Senza tentare di ripercorrere strade che i Grandi hanno già aperto e percorso (e battuto/vinto). Se cambia il mondo, e il nostro è già cambiato, non si può continuare a descriverlo e parlarne con lo stesso linguaggio del prima. Se cambia il mondo, muta in parte l’Arte per raccontarlo.

In questo pezzo mi ero ripromessa di non usare mai la parola indie. Non perché io non pensi che Francesco Motta possa essere avvicinato per utilizzo del linguaggio, musicale e non, a tutto quello che di concetto è racchiuso nel mondo ‘indie’ ma perché le parole quando si frantumano così, perdendo i confini per il troppo utilizzo e abuso, smettono quasi di avere senso. Come quel gioco che si faceva da bambini a ripetere velocemente sempre lo stesso termine, finiva che si mischiavano i suoni e non si capiva più un accidenti. Ecco, per ‘indie’ credo sia successa la stessa cosa, è stata troppe volte ripetuta da un’immaginaria voce collettiva, che sta sfaldando i suoi confini.  

Foto di Claudia Pajewski

 

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In dettaglio

  • Produzione artistica: Riccardo Sinigallia
  • Anno: 2016
  • Durata: 36:14
  • Etichetta: Sugar

Elenco delle tracce

01.  Del tempo che passa la felicità
02.  La fine dei vent’anni
03.  Prima o poi ci passerà
04.  Sei bella davvero
05.  Roma stasera
06.  Mio padre era comunista
07.  Prenditi quello che vuoi
08.  Se continuiamo a correre
09.  Una maternità
10.  Abbiamo vinto un’altra guerra

 

 

Brani migliori

  1. Prima o poi ci passerà
  2. Roma stasera
  3. Abbiamo vinto un’altra guerra

Musicisti

Riccardo Sinigallia: elettronica, basso, cori, campioni, synth,  -  Cesare Petulicchio: batteria  -  Andrea Ruggiero: violini  -  Laura Arzilli: basso  -  Lello Arzilli: sax tenore, flauto traverso  -  Andrea Pesce: piano, synth  -  Giorgio Canali: chitarra elettrica  -  Maurizio Loffredo: lap steel  -  Guglielmo Ridolfo Gagliano: violoncello  -  Alessandro Alosi: chitarra elettrica