Mesudì
È sempre più raro trovare qualcosa che entri a far parte di te: per me che lavoro con le lettere, Quando Rimo dei Mesudì, tratto dal loro album Nodi, diventerà uno strumento da insegnante quando dovrò mostrare cos’è l’Indovinello veronese.
Non è la prima canzone che sfrutta il ponte tra la lingua latina e quella italiana: già Elio e le Storie Tese, in Sono Pagano, avevano intuito la forza comunicativa di questo indovinello sulla scrittura. Ma in Quando Rimo lo scopo è diverso: non è essenzialmente ponte tra due culture, ma momento cardine su cui poggia il profondo lavoro linguistico che questo album compie, da un punto di vista retorico, ma anche delle favelle.
Per averne un’idea si potrebbe cominciare semplicemente elencando le lingue usate in tutto il disco: dialetto calabrese, o in generale della fascia meridionale estrema che comprende anche Calabria (si veda la ninna nanna del brano Voca Sia) e Sicilia, quindi la Magna Grecia, con le influenze del grico, il che crea un collegamento mediterraneo fino al greco antico; dialetto romano e latino, un altro espediente che crea profondità antichistica; l’inglese, inserito a sorpresa melodicamente sulla parlata in dialetto di Gianna e Peppi, come una riscoperta orfica di un’esoticità che sembra oggi aver perso il suo legame con una purezza del passato, messo in chiusura dell’album in una storia che parla di due amori, di una doppia vita che pare sottolineata dalla doppia vita linguistica, in questo pezzo e in tutta l’opera appena conclusa.
E l’italiano? Certo, c’è anche l’italiano, ma non viene mai usato in melodia, solo per parti parlate, recitative più che rap, in giochi di parole bergonzoniani che esplicitano con significato e significante lo stesso concetto: “Quando rimo, colgo, esprimo, io per primo il senso estremo di un fluire del pensiero che comprimo, limo, premo e spremo”. Quel premere soprattutto, che sembra messo lì solo per creare un gioco di paronomasie, ricorda invece l’Oltranza oltraggio di Zanzotto, quello spingere il linguaggio oltre i propri limiti, senza arrivare alla sua distruzione.
La musica diventa il luogo sonoro della scoperta in cui vengono inserite le influenze di tutto il Mediterraneo: i cori splendidi di Surace, Flotta (è un nome d’arte in linea con il disco?) e Ugenti si stagliano su ritmi coinvolgenti, arrangiamenti che non coprono l’essenzialità del pezzo, armonie semplici su cui appunto però i cori possono introdurre delle note fuori dall’accordo base, che danno quel tipico senso di commistione da Mare nostrum. Attraverso il mare arrivano gli stranieri, che possono essere visti come dei nemici, oppure come quei Turchi di Matri a Tocchi che risuolano le scarpe, ovvero metaforicamente danno la forza di camminare, di percorrere nuove strade con più sicurezza.
Dopo questa disamina superficiale di alcuni punti che affastellano un album molto denso, possiamo iniziare a capire quanti significati nasconde il titolo Nodi: sono quelli dei marinai, quelli che ci legano al mare, alle nostre origini, alla nostra terra e alle altre terre, quelli che dobbiamo sciogliere per partire e che dobbiamo fare per attraccare, quelli che dobbiamo stringere con chi è diverso da noi, o semplicemente un filo che da disbrogliare che ci metta / nel mezzo di una verità. (I limoni, Montale)
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01. Anvaca
02. Voca sia
03. Scafuliandu
04. Quando rimo
05. Improcondria
06. Eppure era così
07. Occhi turchini
08. Matri a tocchi
09. Gianna e Peppi
Claudia Ugenti: voce, percussioni - Francesca Flotta: voce, percussioni - Elisa Surace: voce, chitarra, percussioni - Simone Pulvano: percussioni, voce