Vittorio Cane
Secondo l’oroscopo musicale italiano, l’ultimo anno solare è stato all’insegna della cinofilia. Predetto dal vaticinio dell’album Dei cani dei Non voglio che Clara, confermato dal manifesto programmatico di Iosonouncane, fino al puro fenomeno mediatico con il sorprendente debutto dei Cani.
Attendevamo quindi con impazienza il ritorno sulle scene del Cane originario, quello che con i suoi primi due album aveva dimostrato con immediatezza e originalità di essere il miglior amico del cantautorato nostrano. Vittorio Cane è per Torino quel che Dente è stato per Milano, un capostipite del rinnovato pop acustico minimalista, che ha fatto proseliti ed epigoni con Secondo (2008), piacevole sleeper hit che ha contribuito alla nascita di un sottogenere e di una vera tendenza musicale.
Quell’universo di chitarra, voce e fantasia ha stregato colleghi ed ascoltatori, e attendeva da anni un seguito, finalmente concretizzatosi nel nuovo Palazzi, terza fatica del nostro Donovan sabaudo. In realtà fin dalla prima analisi emerge una constatazione: l’elemento che sembra più latitare è proprio la percezione dello “sforzo” compositivo, per un lavoro teoricamente concepito in un arco di tre anni. Il canzoniere di Vittorio Cane è sempre stato caratterizzato da un’apparente leggerezza di attitudine espressiva ed esecutiva, una semplicità ricercata, divenuta col tempo un’intenzionale garanzia stilistica. Non ci aspettavamo quindi brani pretenziosi, e anzi è salutare quell’immediatezza che come in passato continua a brillare tra le nuove tracce, nessuna esclusa. Soltanto che non sembra vi sia molto di più: l’insieme è gradevole, sia nelle ludiche schitarrate indie-folk di scuola Coxoniana, nell’alchimia naif con fidati templari della scena torinese (tra cui spiccano i sempre geniali fratelli Deian e Tristan Martinelli), sia nei testi, simpatici nel loro descrivere storie di quotidiana indolenza. Ma come nei rapporti interpersonali, si ricorre alla definizione “simpatia” quando qualcosa non riesce veramente a coinvolgerci, e vogliamo consolare e consolarci. Perché va bene snocciolare ritratti di incomunicabilità urbana (i citati “palazzi”, metafora di compartimenti stagni e alienanti in cui sopravviviamo e ci nascondiamo), ma ci vuole spessore anche per evocare inconsistenza, che sia una critica, una satira o una celebrazione.
Non è il primo né l’ultimo caso di cantautorato “pigro” (ricordiamo per tutti il maestro Ivan Graziani), chiediamo solo a Vittorio Cane di impegnarsi per dare senso e corpo a questa pigrizia, trasformando accattivanti sketch in composizioni mature (un esempio da seguire è un pezzo “adulto” come l’emozionante coda lennoniana di A casa mia).
Palazzi sembra adagiarsi sulla provocazione di Edoardo Bennato, sicuro riferimento di Vittorio, nel suo “sono solo canzonette”. “Solo” questo, purtroppo, sono. Per davvero.
01. Quello che
02. Mai
03. Umano
04. A Milano
05. Sto bene
06. Non ne ho
07. Palazzi
08. Responsabilità
09. Qui
10. A casa mia