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Gerardo Pozzi

Ricordati di te

A prima vista può apparire un disco senza speranza questo nuovo, bellissimo album di Gerardo Pozzi, Ricordati di te. Una sorta di demone sembra attraversare la nostra vista, tra piccoli e grandi dolori personali e piccoli e grandi drammi umani. Demone che attraversa le dieci canzoni contenute nel disco stesso. Eppure…

Eppure, dopo mezz'ora di ottima musica ciò che resta nell’ascoltatore non è una silenziosa disperazione. Tutt’altro. Sarà per la “strana” voce (un poco ruvida, ma efficacissima) di Pozzi, sarà per il suo incedere un po’ alla Locasciulli (come è stato già segnalato) che ricorda la grande tradizione cantautorale italiana, sarà per la vena - qua e là - sarcastica del Nostro. Il Demone maligno, personificato nel brano Fangù, alla fine è un povero diavolo, che si diverte a far inciampare le persone con le infradito (sai che sforzo!), persone che nonostante tutto credono ancora al bene. Ecco, se qualcuno ha parlato di resilienza, io preferisco parlare di Titanismo di stampo quasi leopardiano. Solo che qui non ci si ribella alla Natura, ma al Male. E nonostante il Male sia ben presente - come detto - nella sua vita, l’uomo (o almeno certi uomini) non si arrende. L’uomo crede ancora in se stesso (e si prenda tale affermazione non come gesto di superbia). Anzi, l’unica nostra vera speranza è proprio questa: che ognuno si ricordi di sé. Sempre. Perché, alla fine, la notte ha da passà. 

Se gran parte delle 10 tracce sono nate durante il periodo covid e durante una durissima prova umana e iniziatica di Gerardo Pozzi, il brano - una delle vette del disco - di apertura, Addapassà, è di antica data. Recuperata, quasi per caso, nei meandri della propria mente (che scherzi può fare a volte l’inconscio). Insomma, un brano musicalmente scritto molti anni fa ritorna improvviso sulle dita, mentre il Nostro si mette al piano. Ne esce un testo nuovo di zecca che in qualche modo - come detto - segna tutta la filosofia del disco a cominciare dal fulminante incipit: “Per stanotte non mi hanno ucciso/ posso dire mi è andata bene”.

Sergej è invece la canzone più amaramente sarcastica del disco. Sergej è in qualche modo l’emblema dell’ipocrisia italica, che rifiuta a parole il migrante salvo poi fargli fare i lavori che lui ovviamente non vuole fare, è la prostituta trans che viene disprezzata di giorno e poi frequentata di notte (e chissà che Pozzi non abbia pensato al De André de La città vecchia e di Princesa).  Musicalmente è uno dei brani più orecchiabili di Pozzi, essendo - anche - una rivisitazione di Johnny bassotto di Pippo Caruso e Bruno Lauzi (e cantata da Lino Toffolo) e una marcetta balcanica scanzonata e allegra. Un pezzo tutto giocato su domande retoriche a cui c’è una sola risposta: “è Sergej”. Allegria che però si smorza nel drammatico finale (segnato dal rallentare della musica), perché l’ultima domanda ci lascia spiazzati e sbigottiti: “Ma chi è che ha figlio in fondo al mare?”.

Anna Göldi trae ispirazione - già dal titolo eponimo - dall’ultimo caso di “stregoneria” nell’Europa Illuminista del Settecento, quando una povera ragazza venne decapitata in Svizzera nel 1782 (“Sono passati ormai quasi 226 anni/ dalla tua testa mozzata./ Dicono che gli svizzeri sono precisi come gli orologi:/ mi sembra una cazzata”). Ma la tragedia di Anna è il “pretesto” per parlare del femminicidio attuale. La differenza è che se prima si usava la ghigliottina o il rogo, ora i metodi sono decisamente più eterogenei (“Solo che adesso al posto dei falò e della ghigliottina/ si usa la pistola./ Oppure l’acido, la macchina, i pugni, i calci,/ le mani strette in gola).

Casomai ha un incedere quasi da musica classica, grazie al magistrale piano di Pozzi. Un brano davvero curioso. Il protagonista non è niente meno che il Senatur Bossi che prima di ottenere grande successo in politica, aveva sperato di sfondare nel mondo della canzone. Ma, naturalmente, non è il Bossi all’apice della popolarità quello che interessa Pozzi. Qui il protagonista è un povero vecchio, malato, dimenticato da tutti. Quasi un relitto di una stagione (politica e non solo) ormai superata. E quasi si rimpiange quel periodo storico, perché quella che stiamo vivendo è un’epoca di puro egoismo, per cui (magia della musica) Pozzi riesce a renderci (umanamente) simpatico persino Bossi. 

Sciabola mi fa invece venire in mente un episodio capitato qualche tempo fa a Michele Serra (o almeno così lui la racconta): mentre girava di notte, incontra davanti a sé una ragazza. Scatta in lui una sorta di riflesso incondizionato e si mette nella testa della ragazza che potrebbe avere paura di lui (di notte, un uomo alle sue spalle); vorrebbe rassicurarla senza essere ridicolo. Quasi si sente in colpa di essere uomo (in piena notte). Quella raccontata da Pozzi è invece una vicenda un poco più comica (e vera). In una notte di pieno inverno, in bicicletta, il Nostro, coperto con un pesante passamontagna, sta canticchiando Andare, camminare, lavorare di Ciampi. Anzi, non la sta neppure cantando, la sta declamando. D’improvviso gli appare una vecchietta che lo guarda con occhi stralunati prendendolo (verosimilmente) per un pazzo o un maniaco. Al povero Pozzi non resta che salutare la vecchietta e dileguarsi: “Mi ha urlato buonasera ma voleva urlare aiuto, polizia, polizia”. Il tutto viene raccontato sotto uno sfondo musicale che ricorda (almeno nella prima parte) Paolo Conte. Un brano di rara maestria teatrale.

Il tempo di riprendere un poco fiato, ed ecco una delle altre perle del disco, Dove è finito l'amore del mondo. Qui il tema dell’abbandono e della solitudine diventa lacerante. A prima vista potrebbe essere intesa come una canzone d’amore, nel senso comune del termine. Ma in realtà c’è ben altro. Perché il vero protagonista del brano non è una persona amata, ma l’uomo stesso. Quello che ha acceso i camini di Auschwitz (qui non citati espressamente) e continua ad accenderli. Quello che si piange addosso e che si discolpa con un bel pianto espiatorio (per poi ricominciare a portare avanti le sue brutture). Eppure non è l’uomo il destinatario del brano, ma Dio, rappresentato da un Cristo anche lui passato da un camino. Come dargli torto se proprio questo Dio ha deciso di nascondersi all’uomo: “Se ti sei nascosto, amore mio, lo sai che ti ho capito?.

Dopo la scomparsa di Dio, ecco l’apparizione (inevitabile) del Maligno (Fangù). Ma come detto in precedenza è un Maligno che trae forza da una parte dalla fragilità dell’uomo, dall’altra dalla cattiveria dell’uomo stesso. E così, il Maligno - una volta riconosciuto per quello che è: cioè un uomo anche lui - fa meno paura. È una forza di cartapesta. Se Dio, giustamente, scompare, spetta a noi far scomparire il Maligno: “Anche tu, Maligno, sei un pupazzo/ una piccola creatura/ non più grande del mio cazzo/ buono per la spazzatura/ Non ho altro da cantarti./ Ora posso anche scordarti./ Io non voglio più vederti…/E adesso posso!”.

Il dolore attuale, dato dalla malattia, dato dall’assenza di amore è in qualche modo il protagonista di Actarus. Quello che era l’eroe della nostra infanzia è ormai un poster un poco sbiadito ancora attaccato al muro. Ma se il poster sbiadisce, non sbiadisce (ce lo cantava già anni fa Battiato) la necessità di amare e di essere amati.

Eppure nonostante tutto questo dolore, questa presenza del Maligno, la vita - ecco il titanismo di cui parlavo all’inizio - continua imperterrita a pulsare. La vita va, appunto: “La vita va, è una candela/ ci soffia sopra un vento/ d’infelicità/ La vita va, traballa sempre/ ma lei è testarda, forse/ non si spegnerà”.

Eccoci così giunti al finale di questo viaggio regalatoci da Gerardo Pozzi. La bellissima e struggente title-track è un po’ il messaggio ultimo, il vero insegnamento da mandare a memoria: “Se il mondo non ha senso/ Se ti senti un po’ più perso/ Ricordati di Te”. E anche questo lo diceva a suo modo Battiato (“Lascia tutto e seguiti”). Sia chiaro, nessun intento egoistico. Ricordarsi di sé vuol dire prendersi cura di sé, amare quel sé che si sente fragile e vulnerabile. La forma più alta di amore, perché è solo prendendosi cura di sé, è solo ricordandosi di sé che si può prendere cura dell’altro.

Non mi stancherò mai di scriverlo, è molto spesso nelle marginali pieghe della produzione italiana che si annidano grandi canzoni e grandi dischi. In altra epoca storica (o in altro paese), uno come Pozzi avrebbe tutta l’attenzione mediatica che meriterebbe. Ma viviamo questa epoca storica (e in questo paese). Per cui spetta (anche) a chi scrive di musica segnalare la grandezza dei “marginali”. Come Pozzi, appunto. 

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In dettaglio

  • Produzione artistica: Gerardo Pozzi 
  • Anno: 2024
  • Durata: 30.00
  • Etichetta: Autoprodotto

Elenco delle tracce

01. Addapassà
02. Sergej
03. Anna Göldi
04. Casomai
05. Sciabola
06. Dove è finito l'amore del mondo
07. Fangù
08. Actarus
09. La vita va
10. Ricordati di te

 

 

Brani migliori

  1. Addapassà
  2. Dove è finito l'amore del mondo
  3. Ricordati di te

Musicisti

Gerardo Pozzi: pianoforte, batteria e percussioni - Paolo Piovesan: Basso, chitarre - Anna Novello: Voce - Franco Bonato: Chitarra classica