Alessandro Cives
È da qualche anno che una nuova schiera di cantautori muove i propri passi sulla scena musicale italiana. Lontani anni luce da una certa retorica e verbosità della “scuola tradizionale”, i “nuovi” hanno fatto della naïveté una sorta di marchio di fabbrica. I due volti forse più noti di questo modo di scrivere sono Tricarico e Dente.
Alessandro Cives, poliedrico autore romano attivo anche in campo artistico, per molti aspetti rientra anch’egli in questa categoria. Le canzoni del disco d’esordio Rose celesti (autoprodotto nel 2008 e oggi riedito da Terresommerse) presentano una buona dose di semplicità nell’arrangiamento e nella struttura; la chitarra acustica in primissimo piano sovrasta (quasi facesse da controcanto alla voce) spesso gli altri strumenti; i testi raccontano storie marginali e piccoli sentimenti personali; la voce non è per nulla impostata e anch’essa in qualche modo essenziale.
Insomma, Rose celesti può al primo ascolto spiazzare, tutto sembra suonare molto “amatoriale” e “fatto in casa”. Ma è solo al secondo passaggio che ci si rende conto che naturalmente questa naïveté è una precisa scelta stilistica. Perché Cives – come dicevo prima – fugge la retorica e vuole imprimere sul disco l’essenzialità della vita.
Rose celesti (espressione che ritorna in quasi tutti i brani) per certi aspetti è una sorta di concept in cui si racconta la storia (le storie) di persone poste (o che si pongono) al limite della vita, considerate folli dalla gente “normale”.
Eccole le rose celesti, le rose che non dovrebbero esistere, gli sbagli di natura che non conoscono la fotosintesi clorofilliana.
È rosa celeste la ragazza che «tira chicchi di riso/ sulle bare, durante i funerali» (Rose celesti), è rosa celeste Melody che «in questa foto è triste […]/ Che tenerezza/ quando si addormenta sola sulla tomba del padre» (Melody). Ma è chiaro, poi, che la rose celeste per eccellenza è l’autore stesso che non solo si rispecchia in questi personaggi, ma è pronto a mettere in scena senza reticenze i propri dolori e le proprie fragilità: «Io nella la vita spesso ne ho perse di occasioni/ ed ho sbagliato, per questo ho dei rimorsi./ E ho abbandonato tutto, persino i miei ricordi./ E ho cancellato anche chi mi ha ingannato» (Di qui).
Un senso di solitudine che può forse trovare conforto e rimedio in due versanti apparentemente opposti: il rifugio nel grembo protettivo di una qualche figura femminile (che però sembra sempre sfuggire): «Ti guardo mentre oscillano i tuoi messaggi e il decolté./ E dici scusa e ridi e intanto tu preparata ti sei…/ non per me» (Il guardaroba di Arlette); oppure nell’atarassia in un qualche guardino Zen in cui «poter essere un re» (Giardino Zen).
01. Nel caffè di Andy
02. Rose celesti
03. Di qui
04. Di nuovo
05. Il guardaroba di Arlette
06. Giardino Zen
07. Melody
08. Vorrei
Alessandro Cives: voce, chitarra e armonica Libero Volpe: basso e tastiere Riccardo Sintoni: batteria Atonia Dutoit: percussioni e cori