Ginez e il bulbo della ventola
Un disco ha dentro la sua musica, il suo suono e il suo rumore e questo è ovvio. Dentro però ci sono anche le facce di quelli che suonano e le mani che s’aggrappano agli strumenti e la suggestione incrocia magari i ricordi di qualche concerto in giro e le atmosfere che escono dallo stereo e riempiono la tua stanza o l’abitacolo della tua auto. Sambuca Sunrise però, oltre a immagini e suoni è un disco che si porta dentro un sacco di odori e profumi e puzze. Una sorta di inalazione sonora in cui il benzene e una Chevrolet scarburata si mischiano all’odore ligure del tramonto, quella nota di salmastro e bicchiere pieno di qualcosa che ti fa guardare al mare con la tracotanza di chi aspetta i pirati per ributtarli a mare. Un disco sgarbato come sanno essere i liguri quando ti accolgono e ti studiano per capire se potrai reggere quel mondo di acqua e di roccia e di creuze che portano al cielo e alle viscere della terra con la stessa indifferenza.
Ginez e il Bulbo della Ventola, siano maledetti per la lunghezza di questo nome che prova fisicamente il recensore pigro, con questo disco rinnovano la magia e la rendono ancora più pulsante e varia, oltre la stessa disposizione naturale delle loro voci e delle loro note. Azzardano, si mettono in gioco, nel sacrosanto diritto del viaggiatore che parte con un bagaglio leggero e idee vaghe di itinerari e ristori. E allora prevale l’odore su tutto, quelle sambuca che ci siamo sbattuti in gola la notte e certo cibo recuperato alla meglio nel retro di qualche locale che fra dieci minuti chiude. E ancora odori di femmine e maschi che si mischiano e si inseguono e si maledicono e si giurano amore e si minacciano morte.
Le luci della sera duellano con L’ombra dell’amore e noi siamo tra il buio e il chiarore e senza quasi mai volerlo come capita nella vita. Un disco dove non si può fingere e l’umano ti viene portato al tavolo nella sua nuda essenza, nella sua baldanza sguarnita, con una Lettera di presentazione che più che una referenza è una pace firmata con la vita. Comunque vada. Dentro queste canzoni roche ci siamo noi e ci costa ammetterlo perché siamo in bilico tra la crociera premio aziendale e il naufragio, ma siamo noi. Per anni s’è passato del tempo tra addetti a fare a gara a trovare le somiglianze di Ginez a qualcos’altro ma è un esercizio sterile. Lui e la sua voce e la sua chitarra e i suoi compari di palco sono solo quello che sentite e che annusate come cani di strada che immaginano il mondo a filo dei copertoni delle auto parcheggiate. Ci sono amori dentro queste canzoni e anche una fottuta solitudine con cui puoi anche trovarti comodo ma che sai già che al tavolo porterà un conto salato. E pagine sparse e figli in giro per il mondo e barbe sempre lunghe e auto che funzionano male e la vergogna di non mollare e ancora una sambuca. Un disco da comprare lasciando segnato sul quadernetto dei conti del bar solito. Buona strada a Ginez e al Bulbo della Ventola, maledetto nome lungo.
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01. Benzene
02. Autunno
03. L’ombra dell’amore
04. Le luci della sera
05. Chevrolet
06. Lettera
07. Sambuca Sunrise
08. Memorie di un poeta
09. Ho visto gente
10. E qui
Ginez: voce e chitarra - Daniele Duchini: basso - Roberto Ascoli: batteria, percussioni, piano - Aliano De Franceschi: chitarre - Simone Rossetti Bazzaro: Archi - Francesco Saverio Gliozzi: violoncello - Raffaele Kohler: fiati - Luciano Macchia: trombone - Carlo Ormea: fisarmonica - Piero Dondi: organo hammond, piano - Alessia Baldini: voce