Stefano Giaccone
Primo disco interamente in
inglese ed opera a tratti sorprendente per Stefano
Giaccone. Autore negli ultimi anni di due album (in italiano) assolutamente
da avere (“Tras Os Montes”, 2005, e “Come un fiore”, 2007), l’ex Franti
raccoglie qui sedici tracce variamente composte: tre sono riscritture in lingua
d’Albione di canzoni tratte da “Le stesse cose ritornano” (disco uscito nel
1998 a nome Tony Buddenbroock), quattro sono brani del tutto nuovi scritti da
solo o insieme al commediografo e attore inglese Peter Brett, due sono cover rispettivamente di un tradizionale
irlandese dell’ottocento (The praties
they grow small) e di una canzone scritta dalla giovane arpista Aite Ursa Tinga; completa il tutto,
intramezzando i brani, una serie di brevi racconti o spunti teatrali dello
stesso Brett, che ci mette anche la voce.
Come avrete capito Viper Songs – il titolo è una citazione
dal mito di Medea, direttamente chiamato in causa nella rivisitazione di
Corrado Alvaro ad un certo punto della scaletta – è un disco tutt’altro che
semplice, sia nella struttura che nei contenuti. Il risultato generale è una
specie di concept-album di teatro-canzone dove il concept – tra storie di amori
finiti, carestie, guerre ed altro ancora – è quello della memoria e della sua
capacità di sigillare nell’anima delle persone il loro passato. Un processo nel
quale la lingua inglese, per stessa ammissione dell’autore nelle note allegate
al booklet, diviene «una sorta di “terra/lingua franca”, dove poter situare la
memoria di un uomo giovane, maturo e anziano. O se volete di vari personaggi
accumunati da una sentiero in quota o sulla costa, ma sempre un sentiero sul
mondo: la sua gente, la sua miseria e la meraviglia del vivere».
Struttura e contenuti a parte –
sui quali però torneremo in una prossima intervista – prese singolarmente le
canzoni di “Viper Songs” confermano l’ottima vena del titolare, da alcuni anni
a questa parte affezionato al folk di matrice inglese (oggi Giaccone vive
stabilmente in Galles), di volta in volta sporcato di venature rock, psych o
blues (ottima la produzione e gli arrangiamenti di Dylan Fowler). Dunque delle nove canzoni di cui dicevamo sopra non
ce n’è una che vada al di sotto di esiti più che buoni, e sono proprio quelle
autografe a mostrare le cose migliori. Su tutte segnaliamo l’acustica
chiaroscurale con viola da gamba di The
man on the moon, i guizzi sentiti con puntelli luccicanti di pianoforte di The gold shone through e la chiusura
dylaniana con breve crescendo d’intensità nel finale di Moon after moon. Peccato che gli intermezzi recitati spezzino un po’
il ritmo, ma d’altra parte l’intento di Stefano Giaccone era proprio quello
raggiunto. Insomma: disco difficile come dicevamo, ma anche estremamente
affascinante nel suo intento di comunicare a più piani e a più registri.
01. Intro
02. The taylor
03. Photograph
04. The man on the moon
05. The house by the sea
06. Those great loves of mine
07. Medea/The praties they grow small
08. At the cafè
09. The gold shone through
10. Reality
11. Reality song
12. The death of Sitting Bull
13. Many good songs
14. The trees
15. Moon after moon
16. Outro
Stefano Giaccone:
voce, chitarra acustica
Peter Brett: voce
recitante
Dylan Fowler:
chitarra acustica, chitarra slide, mandoloncello, tastiera, percussioni,
elettronica
Max Brizio:
pianoforte
Gillian Stevens:
viola da gamba
Margaret Brett:
voce recitante
Frankie Armstrong:
voce
Dave Newell: tromba
Cheryl Christopher:
corno inglese