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30 anni senza Massimo

Il 23 giugno 1993 moriva Massimo Urbani, di cui esce ora un prezioso inedito, che sta al centro di una puntata come sempre molto trafficata

 

Abbuffata estiva, del resto ampiamente prevista, per dischi arrivati prima che ci predisponessimo a raggiungere i nostri veri o presunti luoghi di ristoro. Come sempre partiamo dal basso, quindi da un poker di cd solitari, il primo dei quali riguarda il giovane fisarmonicista messinese Antonino De Luca, che in Respiri (Dodicilune) offre un eloquente saggio del suo sapere musicale, attraverso un album rigoglioso, ovviamente molto calato in umori popolari. Pezzi suoi e di Petrucciani, Rava, Horace Silver, a indicare che ovviamente il jazz vi occupa comunque un ruolo centrale, il che vale anche, su tutt’altro piano, per un percussionista storico come l’eporediese Massimo Barbiero, che al solo ha preso gusto e in Eros e Thanatos (Music Studio) ce ne dà una delle testimonianze più eloquenti, come sempre senza tutti gli orpelli tipici di tanti suoi colleghi di strumento, e invece con un rigore e un’affidabilità, una puntualità creativa, come sempre esemplari. Fra pelli, metalli e altro ancora.

Proseguiamo con due album di sax alto solo. Il primo si deve a un altro piemontese, Francesco Aroni Vigone (qua e là anche al soprano), che con Orbita (We Insist!) ci offre un’opera densa, rigorosissima, quanto sostanzialmente scorrevole (diciotto brani brevi), fruibile, il che non si può dire di Da erosão (4daR) del portoghese (tanto per fare una scappata oltreconfine) Bruno Parrinha, che si muove su una grammatica ben più estrema, radicale, di testa, nel suo circumnavigare il pianeta-sax alto. Qualche bagliore in più nei brani 5 e 6 (di sette).

Quattro anche i cd in duo di cui ci occupiamo, tre dei quali nell’abbinamento ancia/contrabbasso. Partiamo da Live in Pisa (Fonterossa) di Tobia Bondesan, ancora sax alto, e Giovanni Maier, appunto contrabbasso, sei brani live dai sei minuti in su segnati da un interscambio che sgorga piuttosto lineare, atteso, laddove in Dimidiam: Find a Light (Da Vinci) Massimiliano Milesi, sax tenore, e Giacomo Papetti, chitarra acustica bassa, si interfacciano su terreni più irregolari, a tratti scuri. In entrambi i casi si respira un senso di compiutezza comunque ammirevole, laddove ben più nervoso, spesso increspato, si svolge in Danze degli scorpioni (We Insist!, incisione del 2008) il dialogo fra i clarinetti di Giancarlo Nino Locatelli e il glorioso contrabbasso del californiano (ma inglese d’adozione) Barre Phillips. Quattro i brani (il primo di quasi 26 minuti), dedicati – un po’ a sorpresa, invero – alla memoria di Coleman Hawkins.

In Amoré (Abeat) il flauto, molto impostato, del barese Aldo Di Caterino dialoga invece con la chitarra classica del concittadino Nando Di Modugno, più ospiti in quattro dei nove brani totali. Clima molto pulito, a volte quasi asettico, comunque di assoluta coerenza formale. E Di Modugno insuffla colori analoghi nell’ultimo lavoro di un altro barese, ben noto, Roberto Ottaviano (foto in alto), che alla testa del quartetto Pinturas (lui al sax soprano) ha d poco pubblicato A che punto è la notte (Dodicilune), inciso a fine febbraio di quest’anno, espressione di una vena creativa quanto mai vivace in questi ultimi anni (e del resto mai esauritasi da un quarantennio in qua). Chiarezza di dizione e bella luminosità complessiva.

 

Nato nel ’57 come Ottaviano, ma ormai volato via da trent’anni, Massimo Urbani, enfant prodige del jazz italiano (a 15 anni con Gaslini, a 17 con Rava) vede uscire per l’occasione 30 (Red), inedito live bolognese in quintetto risalente al dicembre 1982. I climi sono quelli suoi tipici: temi per lo più di repertorio (qui ci sono I’ll Rememeber April, Coltrane, Gillespie, Joe Henderson, Hank Mobley) che fungono da trampolino per elucubrazioni improvvisative generosissime e spesso immaginifiche. Notevole il parterre di contorno (si fa per dire), in particolare nel sax tenore di Pietro Tonolo, all’epoca poco più che ventenne, che oggi, oltre quarant’anni dopo, se ne esce con un nuovo lavoro di sicuro spessore come Insonnia (Parco della Musica), alla testa di un quartetto da favola con la voce di Cristina Zavalloni, il cello di Mario Brunello e il piano di Paolo Birro (testi, tutti in italiano, di Umberto Contarello). Clima alquanto cameristico, di estrema eleganza e concentrazione.

Un altro quartetto, solo in apparenza più canonico, è quello che il bassista Ferdinando Romano (foto sopra) guida in Invisible Painters (Jam/UnJam), suo nuovo cd dopo il premiatissimo “Totem”. Vi si respira un’aria ora più piena ora più ariosa, che specie nell’uso che Federico Calcagno fa del clarinetto basso rimanda a umori un po’ à la Portal-Sclavis, il che non è rilievo da poco, specie nel momento in cui le stimmate di originalità non mancano di certo. Altro talento di sicura affidabilità è il trombettista spezino Andrea Paganetto (foto sotto), che in Ianua (OrangeHome) torna a sua volta alla testa di un quartetto felicemente coeso (più ospiti illustri), nel segno di una musica viva, pulsante, di ammirevole impianto corale.

In identico organico – tromba/chitarra/basso/batteria – si svolge pure Letting Go (Igloo), cofirmato dal chitarrista lussemburghese Greg Lamy e dal nostro Flavio Boltro, opera che pur battendo sentieri più calati nel grande ceppo jazzistico sa offrire una musica vitale, attualissima, illuminata da assoli sempre pertinenti, specie da parte del trombettista torinese. C’è in più il pianoforte del leader Emiliano D’Auria nel quintetto che firma per contro First Rain (Losen) e non è aggiunta di poco conto, anche se la presenza almeno di Luca Aquino alla tromba funge da efficacissimo pendant al ruolo giocato dal piano (brani tutti di D’Auria, tranne i tre Entr’act, brevi impro collettive).

 


Chiudiamo tornando in terra di Puglia (Lecce, per l’esattezza) con gli ultimi due cd in scaletta. Il primo, Legno madre (Tuk), si deve al bassista Marco Bardoscia. Lo affiancano quattro solisti, un’orchestra d’archi e, in Lagrimas negras, Mannarino alla voce. Il tutto con un’anima jazzistico-sinfonica che fa suoi ampi scampoli di schietta cantabilità popolare, il tutto in un disegno piuttosto netto, pulito, laddove nel doppio The Coltrane Suite and Other Impressions (Dodicilune) il sassofonista Adriano Clemente convoglia (fin dal titolo) umori altrettanto variegati (Coltrane talora è poco più di un pretesto) ma ben più corporei, a tratti roboanti, di colore acceso, avvalendosi a sua volta di un organico molto ampio, rotondo, efficiente, col sax tenore di David Murray solista di punta (ovviamente). Disco di vasti appetiti, spesso saziati.

 

Foto di Alberto Bazzurro  

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