Le novità,
discografiche e non solo, partorite negli ultimi tempi all’ombra della Mole e
un po’più in là nella settima puntata del nostro Arcipelago Jazz. Come sempre ci fa da guida Alberto Bazzurro.
La
notizia è abbastanza clamorosa: l’Art
Studio, con tutta probabilità il più importante gruppo italiano di matrice
post-free, nato a Torino nel 1974 e scioltosi una prima volta una ventina
d’anni fa, dopo una prima reunion datata 1997 annuncia la ripresa
dell’attività. Della nuova formazione faranno parte tre dei membri originari,
il chitarrista Claudio Lodati, il bassista Enrico Fazio e il batterista Fiorenzo
Sordini, mentre alle ance Carlo Actis Dato, ormai completamente assorbito dai
gruppi propri, sarà sostituito da Francesco Aroni Vigone. Rientra in organico,
invece, la pianista/cantante americana Irene Robbins, che dell’Art Studio ha
fatto parte per tutti gli anni ottanta.
In attesa che il
glorioso ensemble documenti con un nuovo album questa sua terza vita, ne
approfittiamo per compiere un sopralluogo in quella che è stata ed è senz’altro
una delle capitali italiane del jazz, appunto Torino (e dintorni). Come sempre,
lo facciamo sulla scorta di una serie di uscite discografiche recenti, partendo
da un musicista molto legato all’Art Studio (anche se vive e opera a Ivrea)
come il percussionista Massimo Barbiero (foto
in alto). Il quale, non pago dei gruppi che dirige da oltre vent’anni (Enten
Eller, Odwalla, ma anche i più recenti Water Dreams e Silence Quartet), se ne
esce oggi con un lavoro (il primo) in completa solitudine, Nausicaa (Splasch), inciso solo pochi mesi fa (gli ultimi giorni
del 2008) e pubblicato a tempo di record (opportunamente, perché troppo spesso
quando un disco esce non fotografa già più i percorsi di chi l’ha realizzato).
Vi trovano posto quindici brani di cui solo uno, Blu, basato su un tema preesistente, laddove tutto il resto è pura
improvvisazione (o meglio composizione istantanea, qui più che mai) titolata a
posteriori. Il disegno complessivo, lo scheletro strutturale, sono peraltro
palpabilissimi: pur lasciando da parte la marimba, Barbiero v’insinua una
cantabilità nitida ed evocativa, che qualcuno riterrà anomala, trattandosi di
percussioni. Errore, perché l’uso in particolare dei colori può fare miracoli.
Come qui, appunto. E comunque non mancano certo le sequenze schiettamente
batteristiche. Un disco assolutamente consigliabile.
Se parliamo poi di
gruppi a nome collettivo (come l’Art Studio, appunto), non possiamo non
trattare, subito a ridosso, un lavoro per più versi sorprendente, Brodo (Robo1) del quintetto Robotnik (foto sotto), nato nel 1999,
vincitore del Greenage 2006 organizzato dal FolkClub e della conseguente chance
di incidere un album, appunto questo, in cui gli fanno da contorno una miriade
di ospiti. Le radici del disco si agganciano a tutto un composito retroterra
che potremmo definire “postmoderno”, con cacofonie free e sonorità rock
frullate assieme in una sorta di ruvido (a tratti livido) “patchwork della
crudeltà” (per dirla con Artaud) di forte impatto, venendo a sposare
un’estetica che non manca di rimandare alle due grandi Z, Zorn e Zappa, senza
dimenticare, qua e là, le due W, Weill e Waits. Un ascolto molto disinibente.
Altro gruppo torinese
di un certo interesse è Quilibrì,
capitanato dal sassofonista Andrea
Ayassot, partner storico di Franco D’Andrea, che firma tutti i temi di Eco Fato (Auand), album d’esordio del
quintetto, completato dal chitarrista tedesco Karsten Lipp, dal bassista
Stefano Risso e da due percussionisti. Molto ruota attorno al soprano di
Ayassot, suono impeccabile, e magari, nel complesso, fin troppa indulgenza
verso una bellezza un po’ esteriore, attraversata da una serpeggiante danzabilità
che ne assicura la piacevolezza (oltre a una mano sicura in fatto di
costruzione, pur con un minimo di ripetitività) ma non lo spessore in senso
stretto. Da irrobustire quanto a profondità ispirativa.
Sempre da casa Auand proviene un altro cd, The Age of Numbers, di quello che è ormai un senatore del jazz sotto la Mole, il sassofonista (tenore e soprano) Emanuele Cisi, qui in quartetto con un milanese, Roberto Cecchetto, alla chitarra, e due bresciani (teniamolo a mente), Paolo Biasi ed Emanuele Maniscalco, rispettivamente basso e batteria. Cisi si è sempre mosso sul fronte di un mainstream aggiornato che qui lascia in qualche misura il posto a una musica più caratterizzata, e quindi originale, su una linea che può ricordare qua e là il trio di Paul Motian con Lovano e Frisell, altrove – con Cisi al soprano – un deambulare onirico vagamente garbarekiano, senza dimenticare Ornette Coleman (3 Small Differences) e Mingus (The Growth). Ne vien fuori un disco solido e ben congegnato, che potrebbe aprire nuovi squarci nella carriera di un musicista di riferimento per la piazza torinese ma non solo.
Si diceva di Brescia: da lì provengono, come accennato, Biasi e Maniscalco (fra l’altro partner regolari di Karsten Lipp), e il batterista figura – con un altro bresciano, il bassista Giulio Corini – nel bell’album che – per una consorella della stessa Auand, Jazz Engine – costituisce la più recente fatica del pianista Stefano Battaglia. Il cd, Out-vestigation, è in realtà a firma collettiva (il quarto è il sassofonista Francesco Bigoni, ferrarese), ma è innegabile che l’estetica di Battaglia vi sia prevalente. Il pianista milanese firma del resto tutti e dieci i temi del lavoro, segnati per lo più dal lirismo ombroso, mai consolatorio (anzi quasi scabro), percorso da una tensione che monta poco alla volta, che gli è proprio, pur non disdegnando certe impennate repentine, nervose benché sempre sorvegliate. Bigoni vi stende sopra le larghe spatolate del suo tenore di marca post-shorteriana, scuro, impastato, ora ovattato, ora quasi grumoso. Un disco notevole, rigoroso e di spiccata identità.