Il mondo della Musica vive oggi una stagione
difficile come mai, in cui tutti i sentieri e le mansioni, i supporti e le
possibilità sono messi a dura prova. Nella scossa incertezza generale, seduti
sulla conca bassa dell’onda lunga in atto, nella quinta puntata della nostra rubrica proviamo ad analizzare la
situazione con l’“agitatore culturale” Franco
Zanetti.
In trentacinque anni hai lavorato con la musica
in vari ruoli, apriamo assieme una finestra sull’oggi partendo dai musicisti. «In questi Duemila credo di aver incontrato
circa quattromila ragazzi della scena “non professionale” e mi sembra che ora
ci sia tanta curiosità nei confronti del “fare della musica”, ma nella
stragrande maggioranza dei casi da parte di gente che non sa farla. La facilità
di accesso data dalle tecnologie ha fatto saltare barriere e difficoltà che
prima scremavano molto, fra quelli che non erano abbastanza capaci e determinati.
Adesso invece arriva tutto, chiunque fa un demo che secondo lui suona in
maniera accettabile; ma ad esempio a me non importa di sapere come suonano le
canzoni ma come sono. Ed è molto difficile spiegarglielo, per una serie di
convinzioni, in parte fondate, che hanno: che conti di più il groove e il sound
piuttosto che la qualità intrinseca della canzone, e poi che vada bene fare
cose come quelle che sentono nelle radio perché le radio passano quella roba lì».
E questa corsa al primo che ci pensa è un approccio, al di là della
capacità tecnica, compositiva, vocale... «Per
quel che ho visto negli anni Ottanta facendo il discografico e nei Novanta
facendo il giornalista, ho la sensazione che in generale oggi ci sia più
protervia, non credono che il parere di un professionista sia il suo lavoro e
ciò sta rendendo molto difficile dar loro retta con buona volontà e
disposizione d’animo». E come sempre il palco è la prova del nove di ogni
discorso. «Sono cresciuti suonando nella
saletta prove o in casa, e hanno una paura fottuta ad andar fuori perché
appunto non sono più abituati, nella vita, a ricevere un giudizio critico - che
quando poi è negativo, non li spinge a pensare “Ah non sono abbastanza bravo”
ma “Quelli non capiscono nulla”. E si lamentano che la gente non va a sentirli
nei locali, ma a loro volta non vanno a sentire gli altri. Un’idiozia, perché
non riescono a capire che la comunità teorica dei musicisti è abbastanza
numerosa da essere già il suo potenziale pubblico: se un centesimo di quelli che
suonano a Milano andasse a sentire tutte le sere un gruppo, tutti i gruppi
avrebbero sempre spettatori. Fondamentalmente è un’aspettativa ad avere
qualcosa considerato dovuto, senza nemmeno andarselo a cercare. E vale anche
per gli aspiranti giornalisti: chiedere per favore va benissimo (e lo
facessero...), è pretendere per dovere che è radicalmente sbagliato». Certo
i professionisti fanno la loro parte nel malcostume. «I discografici si meritano le disgrazie che sono loro capitate, hanno
commesso un errore clamoroso per decennio, l’ultimo dei quali è non aver capito
che erano loro che dovevano diventare iTunes e non viceversa. E’ una categoria
fatta ormai di gente demotivata oltre che di troppi incompetenti. Ed anche il
loro rapporto con i media è cambiato: il fatturato dei sette network
radiofonici è da tre anni superiore a quello delle etichette discografiche, e i
rapporti sono quindi di forza economica, ma non paritaria». E più ancora
delle radio commerciali, da qualche anno spadroneggiano i format televisivi. «La maggior parte dei ragazzi non vuole fare
il musicista, vuole andare in televisione, ci andrebbe anche come serial
killer. E siccome per andare in tv serve un acceleratore, il look, che è sempre
contato, ha acquistato più importanza ancora; il problema è che in certi casi
conta soltanto l’immagine e non quel che si canta e come». E a completare
il quadro, giornalisti e uffici stampa partecipano troppo spesso al teatrino...
«Intanto tutti quelli che fanno i
giornalisti dovrebbero provare a fare una volta gli uffici stampa e viceversa,
per conoscersi e rispettarsi reciprocamente, perché sono fondamentali gli uni
per gli altri. Inoltre le nuove modalità di comunicazione hanno inciso in
maniera determinante, diminuendo il tempo, spingendo a prendere più lavori e
impedendoti di fare bene il singolo lavoro. E i giornali chiudono per l’ovvia
ragione che non c’è più abbastanza gente disposta a pagare per leggere quello
che hai scritto; c’è gente che ti legge e ti cerca anche, ma non più pagando. E
visto che non fanno più vendere i dischi e non influiscono, i giornali non
servono nemmeno più. A questo si aggiunge che sui quotidiani scrivono sempre
gli stessi, e con le loro pigrizie, per cui dei soliti artisti non si scrive
che benissimo, perché non han più voglia di ascoltarli davvero, e partecipano
al sistema perché conservano il piacere di dire al macellaio “Ieri ero a pranzo
con tal dei tali”. E quando mai questi smetteranno, i successori saranno come
Carlo di Inghilterra che avrà la corona da vecchio; una situazione che non ha
senso, anche perché ad una certa età hai un quadro complessivo e non devi fare
la cronaca dell’attualità ma riflessioni, per le quali però non c’è più spazio.
E’ cambiato il modello: ai ragazzi di adesso non interessa che qualcuno gli
racconti cosa c’è nella musica che ascoltano, e purtroppo è il quadro generale
in cui il lavoro del giornalista non è più prestigioso, non ci sono incentivi
né penalità. Oltretutto c’è un dumping di gente che vorrebbe scrivere e che pur
di vedere la propria firma accetta la svendita. La verità agghiacciante è che non
c’è solidarietà e pare che a nessuno interessi fare bene il suo mestiere,
perché “tanto la gente non se ne accorge». Il problema è a monte del monte.
«Lo so che è una cosa che suona
romanticissima, ma quello che non c’è più è insomma la passione vera - di
scrivere, comunicare, suonare, fare i dischi. Che è quella per cui uno fa tardi
la sera, lavora la Domenica, fa trecento chilometri per fare una giuria. E’ la
scintilla del “vediamo se riusciamo a far succedere qualcosa”. Io sono
contentissimo di quello che ho fatto e faccio, anche se non sono diventato
ricco, famoso o potente. Perché se ci metti la testa e la voglia, anche un
piccolo risultato è un grande risultato. Ma probabilmente quello che ora
suscita quel tipo di passione è altro, tipo la playstation». Fra cuore e
sterno il pensiero è quindi se – e come –
ne verremo fuori. «Sinceramente non lo
so, l’unica cosa che mi viene da dire è che le case discografiche dovrebbero
protestare l’accordo con le radio, e per due anni sospendere le pubblicazioni e
ogni autorizzazione per il passaggio dei loro pezzi. Tanto dicono che stare
attivi gli costa: allora la smettano! Ma non funzionerà perché, appunto, ci
sarà sempre qualcuno che abbandona il gruppo e viene fuori “a meno».
Franco Zanetti ha iniziato
l’attività giornalistica nel 1974, collaborando via via con numerose testate,
radio, televisioni, case editrici, manifestazioni. Ha lavorato anche nella
discografia come capo ufficio stampa, promozione e direttore artistico (EMI,
CGD-Messaggerie Musicali, Sugar...). Dirige dal 1998 Rockol.it, primo sito
internet italiano d’informazione musicale.