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Dal solo al quartetto

Attingendo per lo più a materiale autonomo, un manipolo di più o meno nuovi alfieri del jazz italiano ha sfornato negli ultimi mesi una serie di album di sicuro interesse, capaci di non cadere nelle secche di un déjà vu fin troppo diffuso.

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Oggi ci occupiamo di un gruppetto di album usciti negli ultimi mesi (abbracciando anche l’ultimo scorcio di 2013) e imperniati su piccoli organici (dal solo al quartetto), praticando l’improvvisazione totale, o comunque privilegiando materiale composto in prima persona. Lavori, sia quel che sia, fuori dalle secche di un jazz di maniera, o di repertorio, sia nella forma che nella sostanza.

Partiamo dall’opera prima (almeno così ci risulta) del contrabbassista genovese Federico Bagnasco, già ascoltato accanto a Max Manfredi, ma qui alle prese con un lavoro tutto suo, molto ambizioso, solitario, finemente composto (in parte con Alessandro Paolini per quanto riguarda la parte elettronica). Ci riferiamo a Le trame del legno (Old Mill Records), quattordici brani in cui convivono un suono di contrabbasso di solidissimo ceppo (specie all’archetto) comunque al centro delle operazioni, e il corredo di sovraincisioni e manipolazioni varie (vengono in mente certi esperimenti del grande Miroslav Vitous), con una tensione sperimentale palpabile, senza che ciò generi situazioni di difficile lettura/decodifica. Una gran bella sorpresa.

Un altro bassista, ben più collaudato, il romano (in realtà pure lui genovese di nascita) Enzo Pietropaoli (foto in alto), ha dato alle stampe qualche mese fa Futuro primitivo (Parco della Musica), in cui dialoga su tutt’altra lunghezza d’onda con Adriano Viterbini, chitarre varie (anche una da tavolo) e dobro. La diversità di prospettiva rispetto a Bagnasco sta essenzialmente nel fatto che qui è in primo luogo Viterbini, col suo approccio country-blues, a determinare lo svolgersi della musica (temi originali e non), mentre il contrabbasso scuro e cogitabondo di Pietropaoli agisce per così dire da àncora, uscendo a intermittenza allo scoperto. Non si avvertono magari i pruriti del CD precedente, ma il lavoro è comunque ragguardevole, per nulla scontato.

Parte in solo e parte in duo è, ancora, Viaggio al centro del violino (Rudi Records), titolo ambizioso finché non si ascolta il disco, veramente maiuscolo, in cui Emanuele Parrini (foto sotto) affianca una prima suite (nove movimenti) appunto per violino solo (il suo, ovviamente) a una seconda (quattro movimenti) in cui duetta con la viola di Paolo Botti, a sua volta avido dissodatore di nuovi sentieri per uno strumento (accorpiamo per comodità violino e viola) che proprio nel recupero – qui avvertibilissimo, specie nella suite solitaria – di un approccio squisitamente “contemporaneo” ha trovato negli ultimi decenni un’ideale sintesi fra una storia piuttosto ingombrante e le istanze del nuovo jazz di ricerca (nonché di sintesi).

Tutto in duo violino-viola, altrettanto avvincente e stimolante, è Paragone d’archi (Leo), cofirmato dal genovese Stefano Pastor e dalla zurighese Charlotte Hug. Lo caratterizza un dialogo fitto, frutto di pura improvvisazione (almeno così pare), col violino di Pastor più onirico, sabbioso, obliquo, evocativo, e la viola (nonché la stessa voce) della Hug più acre, pietrosa, acuminata, recalcitrante. Ogni brano è una suggestiva intromissione nel campo dell’insondato, con sorprese a getto continuo pur in presenza di situazioni sulla carta ripetitive, cicliche, le cui potenziali insidie l’inventiva dei due performer riesce abilmente a dribblare. Altro gran disco.

Se la voce appare e scompare in “Paragone d’archi”, una posizione ben più centrale le spetta in Glad to the Unhappy (Leo), firmato congiuntamente da Stefano Luigi Mangia, voce (appunto) e melodica, Adriano La Volpe, chitarra ed elettronica, Giorgio Distante, tromba e ancora elettronica. Temi (pur in senso lato) di Mangia e La Volpe, oltre a una trasfigurazione del brano di Rodgers & Hart che lo intitola, generano un album un po’ a corrente alternata, talora fin troppo minimale, esangue, estenuato, specie proprio nel segno della voce, dolorosa, strascicata, incorporea, di Mangia. Un album, sia quel che sia, senza un’oncia di banalità. Il che è già parecchio.

Un più o meno classico piano trio rimpiazza voce e chitarra in Hymnus ad nocturnum (Parco della Musica), album d’esordio del ventiseienne trombettista bresciano Gabriele Mitelli, autore di tutti e sette i brani in scaletta, in cui sembra aver ascoltato con una certa attenzione Enrico Rava, e magari lo stesso Don Cherry, confezionando una musica concentrata e coesa, ora più sospesa, come distillata, ora più attorcigliata e nervosa. Una musica la cui cifra stilistica va forse ulteriormente precisata, ma  comunque in possesso di presupposti più che incoraggianti. 

Più spinto in avanti un secondo quartetto, certamente più maturo (anche nell’età dei suoi membri), l’Hanuman Jazz Quartet, protagonista di Soundhosing (Leo). Due ance (clarinetto e sassofono), basso e batteria vi attraversano dieci brani per lo più originali (e per lo più del clarinettista Fabio Martini, ma c’è anche, fra il resto, Retreat di Steve Lacy, elusivo, sofficemente aereo) con un occhio – schiettamente europeo, verrebbe da dire – all’avanguardia storica (da Albert Ayler a Evan Parker, per fissarne una sorta di estremi), pur senza eccessi, anzi con una trama strutturale sempre piuttosto nitida, equilibrata. Altro ottimo lavoro. Col quale chiudiamo la nostra odierna carrellata.

Foto di Dario Villa.


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