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Qualcuno si arrischia ancora a mettere insieme organici di vaste proporzioni, tentativo di questi tempi particolarmente encomiabile, che merita tutta la nostra attenzione: gliela concediamo volentieri.

 Come periodicamente facciamo, in questo spazio, riparliamo oggi di organici di vaste dimensioni, invero sempre più rari in ambito jazzistico, nelle ristrettezze economiche in cui ci troviamo ad annaspare. Ci sono alcuni temerari, tuttavia, che osano ancora muoversi lungo questo insidioso crinale. Il primo esempio in cui c’imbattiamo, in realtà, è un’incisione del 2010 (ma appena edita) e si riferisce a uno degli ultimi passaggi dall’Italia di Butch Morris, il demiurgo delle conductions, prematuramente scomparso due anni or sono. Della session – live al festival di Sant’Anna Arresi, che a inizio settembre dedicherà la sua nuova edizione appunto alla conduction – ci occupiamo in quanto l’organico allestito per l’occasione (quindici elementi) affianca nomi illustri della scena internazionale (Dave Murray, Evan Parker, Joseph Bowie, Hamid Drake, Alan Silva...) e di casa nostra (Pasquale Innarella, Tony Cattano, Silvia Bolognesi...). L’opera s’intitola Possible Universe (Punta Giara) ed è una suite in otto parti in cui si respira l’aria tipica delle conductons morrisiane (che hanno fatto scuola), le nuvole di suoni (il pulviscolo, spesso), i percorsi frastagliati (qui meno di altre volte, in verità), una certa solennità (qua e là persino un minimo di staticità).

Potremmo definire invece di matrice orchestrale post-coltraniana Sounds of Hope (Rudi Records) di Daniele Cavallanti col Milano Contemporary Art Ensemble, quattordici elementi fra i quali spiccano Riccardo Luppi, Luca Calabrese, Beppe Caruso, Paolo Botti, Alberto Tacchini e Tiziano Tononi. L’incisione è del giugno 2014 e comprende temi di Cavallanti, Caruso, Wayne Shorter e – soprattutto – Mongezi Feza (due), il grande trombettista fra i capi cordata della fecondissima colonia di musicisti sudafricani approdati a Londra negli anni Sessanta. C’è quel misto di ritualismo, solennità e tribalità tipico di questa musica, tutt’oggi vivissima, il cui principale riscontro nero-americano a conti fatti è l’Art Ensemble of Chicago (anche nei pezzi ad altra firma), entro un lavoro ottimamente coeso, di grande sostanza.

A soffiare nel disco di cui sopra c’è anche il polistrumentista Francesco Chiapperini (foto in alto), che ritroviamo in Our Redemption (sempre Rudi Records) alla guida di un agguerrito nonetto con tre ance, tre archi, pianoforte e doppia percussione. La musica che ne esce (tutta a firma dello stesso Chiapperini) è decisamente più screziata, articolata che nell’album precedente. Densità e decongestione vi si giustappongono costantemente, nel segno di un’eleganza di tratto che non manca di accendersi di quando in quando, facendosi corporale, vociferante, liberatoria, in un alternarsi di umori e tracciati di grande efficacia e costante coinvolgimento emotivo.

Ha un tiro ben più corposo dei suoi soli sei elementi (due ance, due chitarre, basso e batteria), proseguendo, Canti alpini (Piccola Orchestra), ultima fatica di Sonata Islands dedicata – non senza sorpresa – ai canti del titolo (nove). Il materiale è quello che è e anche il risultato finale non sembra pari ai precedenti album del gruppo guidato dal flautista Emilio Galante. Vi si respira un clima di eccessiva normalità, anche se il lavoro guadagna posizioni strada facendo, in particolare nel trittico finale, sino al conclusivo Monte Pasubio (con finale cantato) che recupera quel clima cameristico che è un po’ il marchio di fabbrica dell’ensemble. Che aspettiamo – non ce ne vogliano Galante e soci – a una prova più indicativa delle sue reali, notevoli potenzialità.

Con una decisa impennata numerica (e repertorio e tracciati ben più eccentrici rispetto al ceppo jazzistico), eccoci ai diciotto elementi coinvolti da Mauro Ottolini (foto sopra) in Musica per una società senza pensieri vol. 1 (Parco della Musica; secondo volume a luglio), nuovo, godibilissimo lavoro dei suoi Sousaphonix. Nata dalla foto di una banda del 1921, l’idea del disco è così riassunta da Ottolini, strumenti vari e voce, e dalla cantante Vanessa Tagliabue York, compagni anche nella vita: “Abbiamo immaginato che questa banda, nel suo lungo viaggio, avesse incontrato Duke Ellington e la sua orchestra, la grande cantante egiziana Oum Kalthoum, la voce intensa della diva portoghese Amalia Rodriguez, il grande compositore giapponese Yamada Kosaku, oppure potrebbe essersi spinta fino al cuore della Giungla Blu dell'imperatore Cha Ku per conoscere le misteriose note e i magici effetti della danza tribale chiamata Chubanga. Nella nostra fantasia, l'abbiamo vista sfilare per le vie di Haiti e accompagnare le voci di centinaia di bambini e vagare per le valli, tornando a casa, per poi unirsi alle voci maschili di un coro di montagna. Chissà che non sia stata fonte di interesse per grandi compositori all'avanguardia nella ricerca musicale del Novecento, come Dimitri Shostakovich, o Igor Stravinsky (e) Luciano Berio”.

C’è un po’ tutto questo, nel disco, che potete dunque immaginare quale ricchezza di ascolto possa offrire. C’è anche un po’ di Capossela (con cui Ottolini ha suonato a lungo), commistioni fra etno e funky, grassa danzabilità e sinuoso enchantement, testi in dodici lingue, solisti di vaglia (Vasi, Botti, Kinzelman, Terragnoli, Gallo, De Rossi, ecc.), grande arguzia (nonché astuzia) e grandi doti d’impaginazione, con tanti stili che si accavallano e quindi, in definitiva, si annullano, però conservando ognuno le proprie fragranze. Grande disco e grande appagamento uditivo, l’avrete capito.

Spingendoci ancora un po’ oltre in quanto a jazz-eccentricità, eccoci infine all’ultimo album della Banda di Piazza Caricamento (dodici elementi – vedi foto qui sopra - più tredici ospiti, fra cui Antonella Ruggiero) dal titolo, quanto mai emblematico, Il sesto continente (Felmay). Vi converge un’eteroprovenienza geografica fisiologicamente ben più larga di Sousaphonix (cinque i continenti rappresentati, a generarne appunto un sesto), su materiale quasi tutto originale della coppia Adrianopoli/Ferrari. Prevale il song, e di jazzistico non c’è praticamente nulla (ma il nostro non è in effetti un arcipelago?), se non vogliamo considerare tali i profumi afro che inevitabilmente ritroviamo in diversi momenti (tipo Amawabode e Gnawa Genes) del disco. Che forse, rispetto a precedenti lavori dell'ensemble genovese, sembra sposare una maggiore leggerezza.

 

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