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Fuori dal seminato (o no?)

Si moltiplicano gli omaggi ad autori estranei allo specifico jazzistico, ma anche no, in un universo in costante fermento, pur con un rispetto del grande ceppo che non viene meno


Anche nel jazz – non da oggi, del resto – si vanno moltiplicando gli album monografici dedicati ad artisti estranei al suo specifico. Un pianista di ampi appetiti come il pugliese Gianni Lenoci (foto sopra) ha per esempio pubblicato per Amirani un cd di Selected Works totalmente centrato sul compositore classico-contemporaneo Earle Brown (1926/2002), che peraltro dal jazz era partito per poi convertirsi al modello-Cage. Vi trovano posto dieci pagine degli anni Cinquanta da cui traspare l’indulgere verso un minimalismo anche insistito, astratto, non senza aperture più dense, acuminate, e il periodico intrufolarsi dell’elettronica. Lavoro di fascino e rigore.

Sempre su Amirani, è uscito anche Syria del duo A-Septic, un altro pianista, Simone Quatrana, e il sax tenore di Stefano Ferrian. Nessun tributo, qui, ma sette improvvisazioni giocate sull’alternanza di umori, tra sequenze fluenti, dense macchie di note, energia e quasi veemenza da un lato, e momenti più scavati, evocativi, a volte persino aerei, dall’altro. Sempre nel segno di un’apprezzabile gusto per la ricerca, che forse fa un po’ difetto a un terzo pianista, il cinquantenne romano Francesco Venerucci, jazzista part-time (scrive parecchio, specie musiche di scena), che in Early Afternoon (Dodicilune, incisioni del 2011) ospita in quattro pezzi su dieci il grande Dave Liebman al sax soprano. Vi si coglie una certa maniera, e scolasticità, un approccio un po’ troppo incline al classico, benché gli episodi di pregio non manchino.

Se Liebman è uno dei sommi sacerdoti del sax soprano, il pontefice massimo (anche per la sua monogamia) ne è certo Steve Lacy, che pur senza rimandi diretti fa capolino in Triad (Long Song; foto sotto), comparendovi il soprano (appunto) di Gianni Mimmo, con Satoko Fujii al piano e Joe Fonda al contrabbasso (e, a sorpresa, flauto). Il disco, che rientra nel programma “un cd al mese” con cui la pianista giapponese vuol celebrare il 2018 in quanto anno dei suoi sessanta (il 9 ottobre), è un’autentica gemma, sperimentale quanto nitido, con una logica ferrea e un senso della forma assolutamente invidiabile (trattasi, anche qui, di improvvisazione totale).


Sempre in trio, e con diversi punti di contatto, è anche Agrakal (Not Two), in cui il nostro Marco Colonna, sax baritono e clarinetto, interagisce con due musicisti stranieri, il pianista catalano Agustí Fernández e il percussionista sloveno  Zlatko Kaučič. Qui i tracciati si fanno un po’ più aspri, per un free senza particolari spasmi ma spesso acido, sempre di estremo rigore. Certo più conciliante ciò che ci arriva invece da Le mie donne (Tuk), opera di un terzo trio, quello classico con basso e batteria, guidato dalla pianista Sade Mangiaracina: otto dediche, nel rispetto del titolo, ad altrettante donne (Rosa Parks, Coco Chanel, Anna Frank, Frida Kahlo, ecc.), attraverso una musica educata, descrittiva, priva di ostacoli verso una fruizione piana e aconflittuale.

Di tutt’altro tono un nuovo, esplicito album dedicato, stavolta al compositore francese Luc Ferrari (1929/2005), emblematicamente intitolato Exercices d’improvisation (Dodicilune), sette, per mano di un quartetto con Giancarlo Schiaffini al trombone, Walter Prati al cello, piano e vibrafono. Segnato da Messiaen, Varèse e ancora Cage, Ferrari praticò sempre l’improvvisazione, pur in ambito “contemporaneo”. Il cd ce ne restituisce i riflessi, ovviamente mediati attraverso le forti personalità degli omaggianti, con fare ora più riflessivo, ora più vivace, sempre ottimamente costruito.

Più mediata (ma la foto in copertina è piuttosto esplicita) la dedica a Nelson Mandela, nel centenario della nascita, in Oltremare (Tuk) di Raffaele Casarano, sax alto, soprano ed elettronica, in un quartetto internazionale con Eric Legnini, tastiere, Lars Danielsson, basso e cello, e Manu Katché, batteria. Disco apprezzabile, anche se Casarano eccede sempre un po’ in “funkeggiamenti” (de gustibus, si capisce), generando un senso di epidermicità al prodotto, peraltro coerente e definito.

Ancora un omaggio – direttissimo, stavolta – ci arriva da Emanuele Cisi con No Eyes (Warner), dove la dedica va all’immenso Lester Young (1909/59), padre di un po’ tutti i sassofonisti di scuola moderna, e per suo tramite a Billie Holiday, che a Prez (com’era soprannominato Young) sopravvisse quattro soli mesi, appena quarantaquattrenne, e che la voce di Roberta Gambarini, ospite del quartetto del tenorista torinese in cinque degli undici brani, rievoca degnamente. Disco molto corretto, forse un po’ scolastico, prevedibile, che bada più al rispetto di un dato linguaggio (non necessariamente dei soli omaggiati) che a ricreare nella loro memoria qualcosa di originale. Solido e ben congegnato, sia come sia, il che vale anche (rispetto del grande ceppo compreso) per Live in Miami @ the WDNA Jazz Gallery (JMood), nuovo album americano del pianista triestino Roberto Magris, in sestetto con, fra gli altri, Brian Lynch alla tromba (e doppia percussione): temi (per lo più di Magris) che fungono da trampolino di lancio e poi via con gli assoli, non di rado al fulmicotone. 

Un senatore del jazz italiano, Gianluigi Trovesi, torna per parte sua con un nuovo lavoro, Mediterraneamente (Dodicilune), in quintetto, e l’omaggio, qui, è alla tradizione musicale nostrana, che Trovesi (sax e clarinetto contralti) esplicita privilegiando (come fa del resto da tempo, sempre più nitidamente) il canto, la melodia, anche con soluzioni fin troppo leggere che non mancano di far rimpiangere i tempi di trio e ottetto.


E chiudiamo con un ultimo album a tema, We Resist! (Parco della Musica) della Lydian Sound Orchestra (qui sopra), come sempre diretta (che vuol dire anche composizioni originali e tutti gli arrangiamenti) da Riccardo Brazzale, a celebrare il quasi omonimo “We Insist! Freedom Now Suite” di Max Roach (1960), passando per il quasi coevo “It’s Time” (1962), di cui compare Lonesome Lover, per ben due volte come del resto Lonely Woman di Ornette Coleman (1959). Insomma: un omaggio alla grande mitologia musicale neroamericana che accompagnò gli anni di lotta per l’emancipazione. Opera rigorosa e di bell’impatto, “We Resist!” si avvale della massiccia presenza di voci (coro e soli) e ha un impianto molto “operistico”, anche drammaturgico, che ne rinforza la fruizione. Molto efficace anche la copertina, decisamente afro. 

Foto di Alberto Bazzurro (Lenoci) e Carlo Mogavero (Lydian).

 

 

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