Il mondo
della Musica vive oggi una stagione difficile come mai, in cui tutti i sentieri
e le mansioni, i supporti e le possibilità sono messi a dura prova. Nella
scossa incertezza generale, seduti sulla conca bassa dell’onda lunga in atto,
in questa terza puntata della nostra rubrica proviamo ad analizzare la
situazione con un addetto ai lavori che la Musica la “gestisce”: Luca Bernini.
«Di crisi
ormai si parla da oltre dieci anni, cioè da talmente tanto che quasi non
ricordo più nemmeno come fosse prima...la crisi del cd, la crisi del live, la
crisi della musica… il tutto con intorno la cornice della Crisi, e basta,
quella generale. Come uscirne? Credo che la buona musica, gli spettacoli
interessanti, quanto di vitale c’è, nonostante tutto, in questo ambiente, non
abbia problemi a sopravvivere decentemente. Vero è che la crisi taglia le gambe
a buona parte del resto». A guardarlo da fuori potrebbe apparire un circo
che si dimena intorno ad una bara. «La
morte del cd è un dato di fatto, lo è per una serie di motivi in parte
imputabili anche alle case discografiche. Inoltre da che mondo è mondo la
musica ha seguito l’evolversi delle possibilità tecnologiche: il singolo,
l’album, il file. Forse la crisi deriva dal nostro stare ancora esplorando
tutte le possibilità che offre oggi la tecnologia, senza esserci scollati dal
vecchio modello di “album” o “cd” che dir si voglia». Detto del supporto, la corte dei miracoli al funerale riguarda
anche la sparizione della critica: parliamo di comunicazione, una bolla che
nello svilupparsi attorno al prodotto, spesso ne falsifica il valore
intrinseco. «I giornali sono ormai una
cassa di risonanza acritica di quanto viene loro detto. Ci si è spostati sul
sensazionalismo, si riempiono i giornali di sold out, di imprese da gladiatori
più che da artisti. I giornali italiani amano questo tipo di trionfalismo di
serie B. Se domani io, da ufficio stampa, scrivessi che il disco di un artista
che promuovo è già disco di platino o che il concerto di ‘Pincopallo’ è già
sold out, sono certo che sarebbero molti di più a scriverlo con un veloce copia
e incolla che a verificarlo al prezzo di qualche telefonata. Non c’è più tempo
se non per incensare, costa immensamente meno fatica e fa fare a tutti bella
figura». Perché il cambiamento di
cui abbiamo bisogno passa inevitabilmente per i vari ruoli professionali
coinvolti, ciascuno in sé e tutti assieme. «Da
quando conosco questo mondo, i discografici hanno sempre pensato solo a vendere
dischi, i promoter a vendere i concerti, i manager a guadagnare dagli artisti,
i giornalisti a scrivere e gli editori a vendere i giornali. In questo senso
forse qualcosa sta cambiando, almeno nella testa di alcuni discografici e
promoter, che iniziano a scambiarsi di ruolo o ad accorparne due o più in uno
solo». Ma è perché siamo esterofili, oppure è vero che all’estero le cose
vanno diversamente? «Il music business,
così come inteso nella musica leggera, è nato all’estero, e questo è un dato di
fatto. La musica in paesi come la Gran Bretagna è più simile al calcio che
all’impiego alle Poste: qualcosa che tutti sognano di fare, e fanno, tra i 17 e i 30 anni, e poi si
cercano un lavoro “serio”: diventano manager, art director, discografici…
evolvono, insomma. Non come da noi». C’è
chi dice che l’ecatombe coinvolga tutti indiscriminatamente, gambizzando i
piccoli ma anche i nomi noti. «No, non è
detto valga per tutti. Artisti come Vinicio Capossela hanno incrementato via
via il proprio volume di vendite, perché hanno “convinto” il pubblico della
bontà della propria proposta. Vinicio ci ha messo vent’anni, è vero, senza
pubblicità o eventi pompati, ma il suo successo è autentico, e quindi
intoccabile dalla crisi». Crisi
nella quale capita di dover fare di necessità virtù, diversificando il proprio
mestiere su più fronti professionali, spesso peraltro complementari fra loro. «La mia è stata un’esigenza personale: aprire
un’etichetta, o una casa editrice, era il mio sogno, e lo è tuttora. Peccato ci
vogliano risorse e una lucidità che non ho avuto se non per pochi attimi…
Indubbiamente le diverse esperienze influenzano il punto di vista: da
giornalista quale sono stato e in parte sono ancora, non posso arrabbiarmi per
una cattiva recensione o per un articolo negato, perché credo in una stampa
libera di decidere se e come scrivere. Al tempo stesso, avendo iniziato a
seguire gli artisti a tutto tondo, ho smesso di dare eccessiva importanza a
quello che scrivono i giornali: il loro contributo e il loro peso, in termini
di vendita ma soprattutto di confronto costruttivo, mi sembra decisamente
minore di quanto essi stessi immaginino». Dati i vari componenti del
puzzle, qual è quindi il nocciolo, per cui può ancora “valer la pena”? «Oggi, se vuoi costruire qualcosa che duri,
la differenza la fa la qualità che proponi e a pari merito l’amore che ci metti
per farla rispettare da tutti, in primis da chi ti circonda. Se non convinci
chi hai intorno di essere speciale non convincerai mai nessuno».
Luca
Bernini
è giornalista (GQ, Rockol), responsabile delle relazioni esterne e produttore
esecutivo di Vinicio Capossela, ma anche autore televisivo (All Music) e
discografico (Gibilterra).