Il mondo
della Musica vive oggi una stagione difficile come mai, in cui tutti i sentieri
e le mansioni, i supporti e le possibilità sono messi a dura prova. Nella
scossa incertezza generale, seduti sulla conca bassa dell’onda lunga in atto,
nella sesta puntata della nostra rubrica proviamo a contestualizzare la
situazione con il musicista e musicologo Franco
Fabbri.
Nel parlare di crisi, specie quando lo spavento
incalza, si tende a generalizzare panico e scetticismo. «Una crisi c’è, bisogna ricordarsi però che l’industria musicale non è
soltanto la discografia e spesso un settore compensa le perdite di un altro.
C’è un calo continuo delle vendite di dischi, ma è anche vero che ci sono stati
casi molto più clamorosi dai quali la discografia si è risollevata: dopo la
grande crisi del 1929 la riduzione aveva quasi raggiunto lo zero del mercato,
negli Stati Uniti il valore era passato da cento milioni a sei milioni di
dollari nel giro di tre-quattro anni, recuperando solo nel Dopoguerra e
superandolo a metà degli anni Cinquanta con il rock’n’roll. Una crisi mostruosa
dal 1933 al 1954-55, in cui l’industria discografica praticamente non esisteva
più. Non mi sembra che sia il caso in questo momento». Ma appunto limitarsi
alla discografia è una miopia. «Il
comparto editoriale del commercio dei diritti è molto florido; a questo si
aggiunge la musica dal vivo, che risulta vitale anche se i fatturati aumentano
soprattutto perché sono aumentati tantissimo i prezzi. E poi c’è una parte di
prodotti industriali che ha a che fare con la musica e che è in una fase di
prosperità, ad esempio i lettori mp3 e i telefonini con capacità musicali. In
generale il problema degli ultimi anni è che gli utili dell’industria musicale
si sono trasferiti, andando ai provider internet, ai fabbricanti di hardware e
così via. Ma questo è il cambiamento in atto, e l’industria della musica, a
cominciare dai discografici, non ha saputo anticipare questo cambiamento;
avrebbero dovuto accorgersi di queste cose trent’anni fa e invece c’è stata
l’illusione che la discografia potesse stare in piedi da sola». La storia conferma come i balzi tecnologici
e i diversi supporti di volta in volta abbiano avuto la loro importanza nella
produzione artistica. L’era dello scaricare da Internet, del ritorno al singolo
sgocciolato, dell’ingresso spesso unilaterale di pro-tools..., può influire
concretamente modificando anche il fare musica? «Ci credo poco. L’unità
creativa di un musicista è quella del concerto di un’ora e mezzo; certo si può
concentrare sul singolo pezzo che gli viene meglio, ma la questione non è “se
cambia il supporto cambia il mondo”: anche se uno volesse solo registrare in
studio, deve essere capace di fare venti pezzi buoni. Sarà che mi sono formato in
un’altra epoca, ma io anche su iTunes compro molti album e sull’iPod ascolto
molti album». Siamo un Paese i
cui fasti e stereotipi storici annoverano la musica accanto all’arte e alla
tavola; altresì la musica è tornata in auge quale collettore e immaginario
giovanile; eppure scontiamo un imbarazzante rapporto con la pratica e la
teoria. «Qualcosa succederà, qualche
strada si è aperta ma resta sempre un forte dominio degli studi musicali
tradizionali, per il resto ci sarà forse spazio fra una decina d’anni. Nei
Conservatori si insegna la pratica musicale, nelle Università si studia la
musica da un altro punto di vista e spesso gli alunni non hanno alcuna
preparazione. Ci dovrebbe essere una riforma molto seria degli studi in
generale, è abbastanza incomprensibile il modo con cui i Conservatori e le
Accademie d’Arte sono stati resi equipollenti all’Università, snaturando anche
i loro curricula. E’ una riforma assolutamente zoppicante che ha creato
problemi a tutti». E sarà banale
dire (ma evidentemente non lo si fa abbastanza) che una migliore educazione
generi una società adulta migliore. «Se
la musica fosse insegnata nelle scuole di ogni ordine e grado, poi il servizio
pubblico, la Rai, non avrebbe alibi per non fare più trasmissioni musicali; ed
invece è un sistema bloccato anche dal conflitto di interessi, perché ci sono
dei centri di potere che vogliono controllarla e che quindi non vogliono
permettere che qualcuno se ne occupi sfuggendo loro». Studio e confronto che invece stanno alla base dell’aggiornamento
e scambio necessari, nell’ambiente della musica “colta” come in quello della
popular music, la cui vitalità e importanza sono dimostrate ad esempio da una
realtà come la IASPM (International Association for the Study of Popular
Music). «La IASPM è nata nel 1981 per
promuovere e coordinare gli studi sulla popular music, su base
interdisciplinare (musicologia, antropologia, sociologia, semiotica, gender
studies, cultural studies...). Oggi ha più di mille iscritti in tutto il mondo,
con sezioni nazionali importanti. Ne fanno parte soprattutto accademici
(professori, studenti) ma anche critici e musicisti». Popular music il cui percorso di attestazione si è sviluppato
contemporaneamente ad un “fatto” esemplificativo, che le musiche popolari
riguarda nel profondo ed al contrario superficialmente è sembrato
“rivoluzionario”: la world music. «Per
quanto fosse usata dagli etnomusicologi da decenni, l'espressione è nata come
etichetta commerciale, nel 1987, per razionalizzare gli scaffali dei negozi di
dischi. Ma già dall'inizio degli anni Ottanta si era creato un interesse per le
musiche "esotiche". Allora, però, l'accesso al mercato occidentale
era mediato dagli studi di registrazione del "centro del mondo" e
dalle majors. A partire degli anni Novanta, prima la registrazione su pc e poi
internet hanno fatto saltare – almeno parzialmente – quella mediazione. E ha
sempre meno senso parlare di world music nel senso anglocentrico delle origini.
Anche se, prima di scegliere all'interno della musica turca, egiziana o indiana
con la stessa abbondanza e facilità con cui si sceglie nel mainstream
angloamericano, bisognerà aspettare (e combattere) ancora».
Franco
Fabbri
insegna materie legate alla popular music (storia, economia, estetica) nelle
università di Torino, Milano e Genova e tiene regolarmente lezioni all’estero.
I suoi libri più recenti sono Around the
clock. Una breve storia della popular music (Utet, 2008) e Il suono in cui viviamo (il Saggiatore,
2008). È stato dal 1966 uno dei componenti del gruppo degli Stormy Six.