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La pecora nera

Italia, 2010

Regia: Ascanio Celestini

Sceneggiatura: Ascanio Celestini

Attori: Giorgio Tirabassi, Luisa De Santis, Barbara Valmorin, Maya Sansa

Produzione: Madeleine srl, Raicinema

Distribuzione: BIM

 

Ascanio Celestini nel suo primo lungometraggio racconta la storia di Nicola, bambino in stato di grazia immaginativa, attraverso cui rivela la sua geniale, visionaria follia di narratore dell’umano. 

«Come è possibile, mi domando a volte, camminare sui prati verdi e avere l’animo triste?» domanda a noi Alberto Paolini, nella parte di se stesso, alla fine de La pecora nera. Come è possibile “essere immersi nel caldo del Sole, mentre tutto d’intorno sorride… E avere l’angoscia nel cuore?”. Accanto a lui è seduto Nicola (Ascanio Celestini), muto. Sono entrambi matti. Alberto lo è due volte, la prima in quanto poeta, la seconda perché, come Nicola, è stato in manicomio per quasi tutta la vita. Ascanio Celestini, trentanove anni, cantautore, attore, autore, scrittore, regista teatrale e ora cinematografico era sbarcato al lido della 67esima edizione del cinema di Venezia, con un’opera prima che raccontava il manicomio come lo aveva già narrato in Teatro in La pecora nera- Elogio funebre del manicomio elettrico. “Il manicomio è un condominio di santi. So' santi i poveri matti, asini sotto le lenzuola cinesi, sudari di fabbricazione industriale; santa la suora che accanto alla lucetta sul comodino suo si illumina come un ex-voto. E il dottore è il più santo di tutti: è il capo dei santi, è Gesucristo”. Così ci racconta Nicola i suoi trentacinque anni di "manicomio elettrico" e, nella sua testa scompaginata, realtà e fantasia si scontrano producendo imprevedibili illuminazioni. La pecora nera è la storia di Nicola, un bimbo solo, la cui madre è internata in un manicomio dove finirà i suoi giorni. I fratelli e il padre sono in campagna a badare alle pecore e lui stesso è la “pecora” della famiglia, quella “nera”. 

Di Nicola si occupa la nonna, con le calze della farmacia e l'uovo fresco “che puzza ancora del culo della gallina” e che porta alla maestra del nipote e alla suora del Santa Maria della Pietà di Roma; ad una per garantire alla fine dell’anno la promozione di questo scolaro “negligente”, che descrive marziani e fatti scabrosi come di donne che leccano gli uomini nudi, e all’altra per consentire loro di sopravvivere, magari potendo scegliere e prendere il costume di carnevale per Nicola tra gli abiti degli internati al manicomio. “L’idea mi è venuta da una chiacchierata con un paziente che mi ha parlato di extraterrestri per un pomeriggio intero in una casa in Umbria, e poi di bambini che finivano al manicomio perché erano orfani”. Anche Nicola viene piazzato dalla famiglia in una casa di cura, perché testimone scomodo di un delitto commesso dai fratelli.

Il film è diviso in due parti: la prima racconta la storia del protagonista da piccolo (Luigi Fedele), negli anni Settanta, la seconda riprende la narrazione dal 2005 quando Nicola è un trentenne che vive ancora in manicomio. Lì gli fa compagnia una vecchia suora (Luisa De Santis), in lacrime per l’agonia del Papa (in televisione si intravedono i telegiornali del 2005), insieme con altri matti come lui. Ascanio (Giorgio Tirabassi) con cui divide pensieri, stanza e branda è un suo “doppio” o una sua metà; quello che ne esprime la divisione interiore tra norma e pazzia. Ascanio è anche un “doppio” di Celestini, o quella sua metà che stravolge la norma, e che ne fa più d’una volta un poeta e dunque un matto. Il film indaga intorno ad un “racconto”, quello di come era vissuta la malattia mentale negli anni ’60 –’70, prima che i manicomi venissero chiusi a seguito dell’entrata in vigore della Legge 180/78, nota come Legge Basaglia. In questo interesse si situa il racconto di Ascanio Celestini, sia esso in forma teatrale, cinematografica o in una canzone: “Io raccolgo memorie di chi ha conosciuto il manicomio un po' come facevano i geografi del passato. [...] Ascolto le storie di chi ha viaggiato attraverso il manicomio non per costruire una storia oggettiva, ma per restituire la freschezza del racconto e l'imprecisione dello sguardo soggettivo, la meraviglia dell'immaginazione e la concretezza delle paure che accompagnano un viaggio”.

La sceneggiatura, scritta insieme a Wilma Labate e Ugo Chiti, promette riflessione, ma anche una certa spassosità tragicomica che viene usata per raccontare episodi terribilmente seri; i personaggi del film sono inventati, ma ognuno porta i segni di uomini e donne realmente incontrati. La parola è utilizzata come segno ritmico, il pensiero si fa rintocco musicale, istintivo, senza pause, creando momenti di travolgente libertà linguistica, liberatoria, popolana e popolare. Celestini scrive canzoni da tre anni, ha iniziato con lo scrivere testi per il Teatro in cui il canto si sostituisse o completasse la loro recitazione e, nel film, la canzone “La gallina” è un vivido un esempio di questo raccontare cantando: “E non lo so se si tratta di storie cantate o di canzoni dette in musica. Così come non saprei dire se il teatro che faccio da dieci anni sia fatto di personaggi raccontati o di azioni senza spettacolo. Credo che al di sopra dei mezzi esista un linguaggio che è fatto di letteratura. Una letteratura che si dà nella scrittura e nell’oralità, ma che soprattutto procede dall’esperienza e torna nell’esperienza. In mezzo ci sono gli individui che si servono degli strumenti che imparano a usare, ma che sono soltanto strumenti, giochi. In mezzo c’è indifferentemente la musica o il teatro, il cinema o i libri”. Celestini è interessato a come questo “fenomeno” della malattia mentale, della sua cura, del luogo di ricovero e reclusione, sia stato vissuto dal paziente e dal personale medico “violenti istituzionali”: “Per questo lavoro ho intervistato un solo paziente. Gli infermieri, a loro volta, possono darti il punto di vista più interessante, perché non hanno una preparazione ideologica come i medici, raccontano più le storie che hanno vissuto che le proprie idee. E rispetto ai pazienti hanno la possibilità di confrontare il “dentro” e il “fuori”, avendo una vita all’esterno dell’Istituto.” A Celestini interessa lo sguardo e quindi il racconto. Il film non restituisce alcuna fattualità, ma racconta e mostra dinamiche, relazioni tra normalità e ciò che non è normalità ed è costruito sul tema del “doppio”: due piani narrativi che s’intersecano, Nicola e Ascanio, il regista sceneggiatore che è anche attore nella figura di Nicola, il bambino e l’adulto, ma anche sul doppio senso che possiamo cogliere nel nostro lessico. 

Parole come pazzia, follia, disagio in cui si colgono sfumature nell’accettazione di senso della devianza; la pazzia segrega, la follia può essere tollerata perché spesso associata al genio creativo, il “disagio”, invece, è un’esperienza comune; è qualcosa che può caratterizzarci a diversi livelli di intensità. E’ una zona indefinita, indefinibile della mente di ognuno di noi e quasi si pone al centro del confine tra normale e non normale e in questa zona limite si posa lo sguardo di Ascanio Celestini motivato da più intenti: il senso e valore del tempo, la costruzione del racconto con la sua componente soggettiva di vissuto e relazione con la storia. La fantasia dei bambini; molti di noi hanno ancora il ricordo della compagnia di qualche creatura fantastica, in qualche serata solitaria della nostra infanzia. Alcune volte queste apparizioni sono avvenute anche dopo l’infanzia, causando a noi e ai nostri genitori qualche preoccupazione sulle condizioni della nostra salute mentale. Un tempo queste manifestazioni della fantasia infantile erano etichettate dagli psicologi come esempio dell’irrazionalità e immaturità della mente dei bambini e proprio per questo Nicola a scuola aveva già il suo destino segnato: seduto all’ultimo banco tra compagni che ridono di lui approvati dalla maestra.

Nicola immagina luoghi e personaggi fantastici in cui può volare, essere invisibile, avere poteri magici e così facendo rende quella sua realtà sopportabile e, una volta trasfigurata, anche comprensibile. E’ un bambino caratterizzato da una sorta di stupore filosofico che gli fa da subito intuire quale senso può avere la vita per ognuno di noi attraverso la metafora dei cento cancelli; possiamo essere persone libere o prigionieri in libertà, tutto dipende se siamo in grado di superare il centesimo cancello. Si possono superare novantanove cancelli e se una volta giunto lì ti senti stanco e torni indietro, non oltrepassando il centesimo, è la prova che sei matto. I cento cancelli sono le nostre paure. Nella seconda parte del film Ascanio e Nicola li troviamo insieme a fare la spesa al supermercato che, nella modernità e nostra quotidianità, è un luogo di alienazione come lo furono in passato le case di cura: “Il manicomio è un luogo dove vengono tolti al paziente gli oggetti con cui potrebbe fasi male: dunque il paziente resta senza alcun oggetto. Il supermercato è un luogo dove invece di togliere l’oggetto si priva l’oggetto dell’identità. Io cammino tra le corsie e vedo una quantità incalcolabile di merce di cui conosco solo una parte d’identità. So come si consumano, ma non so da dove vengano, chi li abbia prodotti, in quali condizioni, e nessuno mi chiede di rendere conto di questa mia ignoranza. Mi aggiro come un uomo invisibile tra marmellate, preservativi e pezzi di carne congelata, riempio il carrello senza dover scambiare due parole con nessuno, alla cassa estraggo un rettangolo di plastica per portare via degli oggetti e tutto questo senza trovarmi mai nella condizione di produrre una relazione minimamente umana. Per questo mi interessa parlar di manicomio, perché è il livello visibile di una schizofrenia che a un grado di visibilità minima appartiene a tutti”.

Ascanio-Nicola al supermercato rivede Marinella (Maya Sansa), una compagna di scuola delle elementari di cui era innamorato. Marinella cerca di vendere ai clienti macchine per fare il caffè, non sistemando più gli scaffali, in questo suo nuovo ruolo e compito presso il supermercato, ottenuto grazie a qualche compromesso, le sembra di aver molto migliorato la qualità della sua vita. Marinella, come un pappagallo ammaestrato, ripete con lo stesso sorriso stereotipato e maliziosamente ammiccante: “Posso offrirle un caffè?”. Nel parcheggio del supermercato Ascanio-Nicola ha il coraggio di afferrare la possibilità di sconfiggere il buio. Il buio fa paura, ripete spesso, la paura del buio è la malattia dei bambini, che ne possono anche morire, ma ora di fronte al sorriso di Marinella, gli sembra di poter avere un po’ meno paura. Forse anche per lui c’è amore. Non quello che dura per sempre, le dice, non quello per cui si sta insieme e si fanno figli, ma almeno quello di un attimo. E vorrebbe che per un attimo loro due si leccassero come nelle sue fantasie infantili. Ma non c’è modo di superare il centesimo cancello.

Nicola-Ascanio, dopo il rifiuto senza parole di Marinella, rifiuterà a sua volta l’ordine della sua stanza, proiezione del Mondo esteriore, che apparirà davvero tanto più assurdo se questo rappresenta per gli altri la norma, la normalità. Comprenderà tristemente di essere un “doppio” dell’altro, del prossimo suo, la proiezione delle paure degli altri. Questa è l’utilità delle “pecore nere”, sempre.

Lo sa bene Alberto Paolini, matto e poeta: “Lasciate a noi le nostre tristezze! A noi che non possiamo andare nei prati e non vediamo mai il Sole”.

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