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L’ospite (?) americano

L’esplorazione dell’Arcipelago Jazz si sposta in questa seconda puntata dal lembo di terra dedicato al Friuli ad una manciata di isolotti che ospitano dischi in cui diversi musicisti italiani collaborano con importanti colleghi statunitensi. A conferma di una crescente qualità del jazz di casa nostra, che non teme il confronto ma invece si apre a un dialogo piuttosto edificante con artisti provenienti dalla terra che del jazz è stata la culla. Ancora una volta ci fa da guida Alberto Bazzurro.
foto di Dario Villa
C’era un tempo in cui, piuttosto comprensibilmente, il jazzista italiano si poneva in una posizione di deferenza nei confronti del collega americano. Loro avevano inventato il jazz, e tanto bastava per farceli apparire (quasi) tutti dei maestri. Quando ne veniva uno di un certo nome in Italia, se si riusciva si fissava una sala d’incisione, si allestiva un gruppo – stabile, o il più qualificato possibile – e si mettevano le due entità a interagire. Quasi mai veniva fuori un capolavoro, ma incisioni comunque di buona caratura,  questo sì. Certo: dobbiamo riandare a cinquant’anni fa o poco meno (talora anche trenta) e citare i vari Chet Baker, Bud Shank, Buddy Collette, Mulligan, Lacy, Rivers, etc.
A partire dagli anni ottanta, il jazz europeo – e quindi anche italiano – ha iniziato ad affrancarsi velocemente e massicciamente dal modello e dall’egemonia americana, e sono quindi germogliati in quantità sempre più cospicua i progetti, concertistici e discografici, in cui italiani e statunitensi si misurano alla pari su un linguaggio comune, frutto di mediazione o proprio di condivisione espressiva. Solo negli ultimi mesi, sono numerosi i cd di questa natura messi sul mercato. Ne scorriamo alcuni, per capire quanto il processo sia ormai un dato di fatto assodato.
I primi due coinvolgono il pianista Antonello Salis (foto sopra), che per cominciare, in Keys and Skins (CAM), duetta col batterista Joey Baron, partner storico dei vari Jim Hall, Zorn, Berne, Frisell, etc. Il talento esuberante, a tratti tellurico, di Salis conosce come sempre ripiegamenti in un lirismo quasi fanciullesco, e la tavolozza che viene così a comporsi fissa un album certo apprezzabile, anche se con poche sorprese. Più robusto, anche negli esiti, è Big Guns (Auand), che vede Salis accanto a un altro batterista americano, di analogo côté stilistico, Bobby Previte, e al trombone di Gianluca Petrella (foto sotto), fra l’altro vincitore per due anni di fila (2006 e 2007) del Critic Polls di “Down Beat” come miglior trombonista emergente del mondo. Petrella dà di piglio anche a svariati marchingegni elettronici (una sua specialità) e alla melodica, Salis a piano elettrico e organo, per un baluginante interscambio, fitto e sempre attraversato da ammirevole curiosità creativa, fra tre personalità evidentemente mai sazie di nuovi confronti. Un ascolto quasi terapeutico.
Sempre da casa Auand proviene I Like Too Much, in bilico tra funky e sperimentazione (l’ombra di Steve Coleman è piuttosto nitidamente avvertibile) inciso dal vivo da Gaetano Partipilo al sax alto, Mike Okazaki (a conti fatti elemento-cardine del trio) alla chitarra elettrica e Dan Weiss alla batteria. Ancora Partipilo e lo stesso Petrella, entrambi pugliesi (nella scorsa puntata scrivevamo dei friulani, ma anche i pugliesi sono una ben nutrita e agguerrita pattuglia), compaiono in un album senza presenze americane, ma pieno di baresi (il pianista Mirko Signorile, il bassista Giorgio Vendola...), benché firmato dal vibrafonista campano Pasquale Bardaro (presente anche il fratello di questi, Vincenzo, alla batteria). L’album s’intitola The Last News (EmArcy/Universal) ed evidenzia apprezzabili doti compositive e di amalgama, anche se lungo tracciati magari non nuovissimi.
foto di Dario Villa
Un’altra bella accolita di talenti è riunita nel quartetto del pianista marchigiano Giovanni Guidi, che nel 2007, a soli ventidue anni, fu eletto miglior nuovo talento italiano dal referendum di “Musica Jazz”. Un anno dopo, Guidi pubblica il suo secondo cd, The House Behind This One (CAM), sempre in quartetto con il tenorsassofonista del Wisconsin Dan Kinzelman, il batterista portoghese Joao Lobo e Stefano Senni (new entry) al contrabbasso, confermando in toto l’eccellenza dell’esordio. Pur entro un organico strabattuto come il quartetto, la musica (temi tutti di Guidi, tranne la celebre Quizàs e Peace Warriors di Ornette Coleman) si muove su terreni tutt’altro che ovvi, ora più ruvidi e scuri, ora più onirici e sospesi, memori di tutto un retroterra non solo jazzistico.
Cinquant’anni esatti separano Guidi da Enrico Intra, il quale, in Liebman Meets Intra (Alfamusic), incrocia il suo pianoforte con i sassofoni del grande Dave Liebman, in quartetto con Marco Vaggi al contrabbasso e Tony Arco alla batteria (più banda elettroacustica preparata da Alessandro Melchiorre). Inciso dal vivo nel maggio di quest’anno, il disco contiene undici temi di Intra, con note di merito per Il Mi di Corso Venezia, dove la musica possiede il respiro grave tipico del pianista, Punto Due – Intraludes, in cui sax tenore e banda magnetica occupano il centro della scena, e Per Donatoni (nel senso di Franco, il grande compositore “colto”), pagina già apprezzata in precedenti versioni.
L’ultimo “ospite” della nostra carrellata è in realtà solo evocato. Trattasi infatti di Miles Davis (nella foto dell’home page con Liebman all’epoca in cui questi militava nel suo gruppo), che com’è noto ci ha lasciati da tempo, ma di cui il sassofonista e compositore Biagio Coppa riprende uno dei dischi nodali (suoi, ma del jazz tutto), “Birth of the Cool”, che diventa Driving Out – Birth of the Cool (Abeat) e i cui storici temi vengono affidati a un organico allargato (rispetto al nonetto originario, la celeberrima Tuba Band) a quindici elementi, più l’ospite Claudio Fasoli al sax soprano e lo stesso Coppa, presente al tenore in Godchild. La rilettura è un pozzo di trovate: tenendo conto di quanto accaduto nel jazz per largo organico dopo quell’esperienza (1948/50), da Gil Evans (che del resto vi prese parte, con Konitz, Mulligan, Roach, John Lewis, etc.) a George Russell, da Carla Bley a Maria Schneider, ad altro ancora (anche in Europa), Coppa confeziona un album di grande forza e originalità in cui le partiture originarie sembrano come galleggiare entro architetture del tutto nuove. Un’autentica gemma.


Foto di Dario Villa (www.dariovilla.net)






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