A sentirlo
(e vederlo) oggi è assai difficile immaginare che Gianluca Grignani abbia potuto fare dodici anni orsono un disco
come La Fabbrica
di plastica. Lavoro decisamente suicida dopo i fasti, anche sanremesi, di “Destinazione
paradiso” e unico vero momento importante – insieme al successivo “Campi di pop
corn” – della carriera del cantautore milanese, che l’etichetta di looser se la guadagna grazie a questo disco
incompreso eppure fondamentale per il rock italico degli anni novanta ma anche,
e in modo molto meno romantico, per i tanti sbandamenti avuti dal duemila in
poi, che purtroppo l’hanno visto finire gambe all’aria su… un’aiuola.
Questa vicenda ha connotati indefiniti, magici,
quasi psichedelici. Apre un varco spazio-temporale strano tra il mio nord-est e
la mia Bologna. Apre spazi della mente che – allora – non consideravo nemmeno.
Si sa, quando si è giovani si è o-tutto-o-niente e ci si ritrova troppo
facilmente presi a guardare solo cosa succede al di là della manica (era
l'epoca del brit-pop) o dall'altra parte dell'Oceano Atlantico (il canto del
cigno del grunge). Succede che questo snobismo ti faccia scappare sotto il
naso, fra le dita, una storia importante, molto più importante di quello
che si possa pensare. Anche a posteriori. Il varco si aprì con “Jack Frusciante è uscito dal gruppo”,
con le sue rincorse ad Aidi (magnifica Beatrice degli anni novanta: come lei nessuna mai), la sua Saragozza
Avenue e i suoi “io ti al di là”. Raccontava, quel libro, una storia d'amore
intrisa di una Bologna che non avevo ancora vissuto, ma che prima ancora di
arrivarci, aveva già scelto me. In fin dei conti, se sono a questo mondo, lo
devo solo a un ginecologo di Bologna, che – unico – ha capito che mamma aveva
tube appiattite, che non permettevano all'ovulo (io!) di scendere e prendere
casa nel suo ventre. Quindi, se ho vissuto la mia giovinezza lassù, nell'alta
Marca trevigiana, dove ho letto Brizzi, dove ho scoperto gli Estra, dove ho
dato il primo bacio, è qui tra le tegole rosse, tra le tagliatelle con il ragù,
nell'afa impossibile, sotto le torri che sono stato pensato.
E questa storia di un libro che riapre stargate
tra estremi della pianura padana è intrecciata indissolubilmente con Gianluca Grignani e la sua Fabbrica
di plastica, perché è un disco immenso, che contiene almeno una
canzone assoluta (Solo cielo), ed è uscito mentre io leggevo di Jack Frusciante. Non l'ho amato
subito, perché quando si è giovani si è cretini e dannatamente snob. E Gianluca
Grignani, guardato con gli occhi del 1996 era una stella minore – ai miei occhi
– che andava bene per il carrozzone di Sanremo e per far pomiciare gli amici
(chi non ha imparato a strimpellare La mia storia fra le dita?). Era uno
che aveva anche l'aura sufficientemente da maledetto (girava anche una storia –
mai saputo io quanto fondata – su un suo tentativo di suicidio per una
delusione d'amore) e la faccia da imbronciato mascalzone che fa innamorare le
ragazzine (guardatelo in copertina su “Destinazione
paradiso”). E se lo guardiamo con gli occhi di oggi, che lo vedono bolso
spettro di se stesso, a tratti volgarmente impegnato a rasare aiuole, ci
sembra impossibile che ci sia stata una stagione in cui Gianluca abbia volato
libero. Eppure è così, ma io l'ho scoperto solo da una stanza in via San
Donato, ovviamente a Bologna (e il cerchio si chiude), quando un ragazzo con lo
sguardo troppo sincero mi ha guardato da dietro gli occhiali spessi e mi ha
detto: “Lo so, ma devi ascoltarlo adesso”. Aveva dannatamente ragione.
Perché se c'è una cosa che noi esseri umani, specialmente se ci interessiamo di
arte e di cultura (spesso si tratta solo di spettacolo), se c'è qualcosa che
siamo bravissimi a fare è dare etichette indelebili. Le incolliamo talmente
bene che non riusciamo più a toglierle.
Invece Gianluca Grignani è l'equivalente di
Diego Armando Maradona: capace da solo di costruire il proprio apogeo e
distruggersi da solo, paradiso e inferno assieme. Entrando nella sua fabbrica
di plastica, Gianluca ha dimostrato di essere un uomo vero, capace di mandare
al macero una carriera da Nek per cercare la propria strada. Il primo punto di
partenza è la chitarra, che suona come quella di Jonny Greenwood, ma allora i
Radiohead non erano nemmeno lontanamente quello che sono stati dieci anni dopo.
Il secondo punto di partenza è la poetica. Quanti cantautori della sua
generazione (classe 1972) possono vantare una coerenza formale e artistica
davvero personale e riconoscibile ancora oggi? Pochi. Certo: anche la sua è
durata lo spazio di un paio di dischi, ma che dischi. Perché Gianluca è
inquieto e lo sa, lo dice: «per Dio se
io fossi la rock star / tutti a calci in culo e sarei sicuro / proprio come mio
papà!». Sono parole di Rok Star, che rincara la dose, quasi fosse
un programma esistenziale: «ehy tu!
parli bene lo sai tu li dal tuo successo / sai quale è il successo essere
figlio di se stesso!». Grignani è però ben consapevole dei propri
limiti: «è questo il mio momento e me
lo dico / io sono di me stesso / il nemico» (Il peggior nemico,
un’intimissima lampo su se stesso): come Diego Armando aveva la propria storia fra
le dita e poteva disporne come voleva. È lucida allucinazione, quella che
chiude il disco, con un jingle da aeroporto, come se Gianluca fosse pronto a
scappare via: «guardo e intorno vedo
tanta gente che con me non c'entra / niente tanto sai non è importante / tanto
non mi frega niente». Nemmeno a me frega tanto di quello che penseranno
gli altri, di tutta quella gente che scrive sui giornali di musica. Io in
quella stanza di via San Donato, dove ho vissuto momenti indimenticabili,
dietro alle lenti spesse di quel ragazzo ho imparato che si può e si deve
cambiare idea sulla gente. E non è assolutamente poco.
Gianluca
Grignani
La
fabbrica di plastica
1996
Mercury
01. La fabbrica di plastica
02. + famoso di Gesù
03. Solo cielo
04. Testa sulla luna
05. Fanny
06.
L'allucinazione
07. La vetrina del negozio di giocattoli
08. Galassia di melassa
09. Rok Star
10. Il mio peggior nemico