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Maynard? No, Franco…

Individuo virtuale, somma di tanti individui, Franco Ferguson è oggi una delle realtà più stimolanti della scena musicale romana. Ne fanno parte belle personalità, che magari si spostano a Ivrea, dove agisce un cenacolo non meno agguerrito.

In campo jazzistico, a dire Ferguson, viene in mente Maynard, il pirotecnico trombettista tutto polmoni. Qui, però, non parliamo di lui, bensì di tal Franco Ferguson. Ma chi è costui? Non un individuo, intanto, o almeno non in senso canonico: Franco Ferguson è un individuo virtuale, somma di tanti individui. Un collettivo, insomma. Un collettivo, come ci fa sapere in prima persona (sempre virtuale, s’intende), “formato da musicisti/e che condividono un approccio critico, creativo e non ortodosso, al jazz e alle musiche ad esso correlate (…) dove l’artista si senta parte di un movimento e non singolo tra singoli”. E ancora: “Franco Ferguson è astrazione creativa, improvvisazione sociale, rivolta estemporanea a organizzazione di un istante (…) suona il silenzio dell’arte e l’estasi rivoluzionaria, saltella e schiva suoni reticenti, colpisce e scompare dalle luci della ribalta”. Una bella realtà vivace, come si sarà capito, fuori da canoni triti e ritriti, coraggiosa e ricca di impulsi. Qualcosa che va felicemente a inserirsi nel novero di esperienze analoghe nate in Italia negli ultimi (neanche troppo pochi, del resto) anni. Esperienze di cui questa rubrica si è già occupata, tipo Bassesfere o Improvvisatore Involontario. Non a caso con qualche travaso fra le varie entità.

Franco Ferguson ha di recente dato alle stampe (su omonima etichetta) due album emblematici del suo agire. Il primo, Live at Moro Jazz Festival, vede all’opera un’orchestra di tredici elementi diretti dal grande sassofonista afrodanese John Tchicai (vedi foto in alto), autentica colonna del free jazz storico, come membro del New York Contemporary Five e del New York Art Quartet, nonché coinvolto da Coltrane nell’epocale “Ascension” e da Ayler in “New York Eye and Ear Control”. Le libere composizioni di Tchicai trovano nella lettura dell’ensemble romano (ma di varia provenienza) un’energia costante e un’estrema attenzione a “muovere” i tracciati di volta in volta predisposti, fra momenti più sfrangiati e altri più coesi, epicità a tratti quasi solenne e gusto del grottesco (qualcosa fa pensare a Sun Ra, qualcos’altro addirittura a Zappa), vociferanti collettivi e sequenze più pacate, come ripiegate. Un ottimo esempio di free jazz calato nel contemporaneo.    

L’altro album, doppio, s’intitola Amazing Recording ed è una sorta di prontuario della realtà-Franco Ferguson, visto che i complessivi ventun brani si devono alla bellezza di dodici diverse formazioni, da uno a tre pezzi ciascuna, dal trio al quintetto. I musicisti coinvolti sono una buona trentina, fra i quali – non potendo menzionarli tutti – citiamo almeno il vibrafonista Francesco Lo Cascio, i bassisti Pino Sallusti e Silvia Bolognesi, il cornista Pino Innarella, il trombettista Angelo Olivieri e il batterista Ettore Fioravanti. Il tutto, pur tra valori dissimili, nel segno della non-ovvietà, della scoperta continua.

C’è, in “Amazing Recording”, anche (in quartetto) il veterano altosassofonista Sandro Satta, il quale di recente ha sfornato un album in trio condiviso col bassista Roberto Bellatalla e col batterista Fabrizio Spera, sorta di rimpatriata (il titolo del disco, edito da Rudi Records, è del resto Re-Union) del free storico made in Italy, peraltro con episodi (l’iniziale Light Lions, per esempio) che di quell’esperienza sembra quasi voler rappresentare una sorta di catarsi, riaccendendosi però altrove, in un percorso frastagliato in cui magari non tutto sarà memorabile, ma che sa comunque regalarci episodi (All Hostages, ora aperto e ora pensoso, Walkies, sua emanazione naturale, accesa e vociferante, il conclusivo Sambuco, non unico episodio in cui l’imprescindibile lezione ornettiana risalta più nitidamente) di notevole forza espressiva.

C’è poi un intero gruppo, sempre in “Amazing Recording”, che sulla scorta di quell’esperienza (giugno 2009), ha deciso di andare studio (in due tranches: luglio 2009 e dicembre 2010) e incidervi un intero album, Mansarda, editonon a caso, alla luce di quanto si diceva prima, da Improvvisatore Involontario. E’ il quintetto formato dalla cantante Marta Raviglia, dal sassofonista e flautista (bostoniano) Henry Cook, dal chitarrista Giacomo Ancillotto, dal contrabbassista Roberto Raciti e dal batterista Francesco Cusa. Disco bizzarro, per più versi, certo molto particolare, in cui la voce impertinente e camaleontica (qui più che mai) della Raviglia si fa grimaldello di situazioni variegate, da un apocalittico-informale di stampo post-moderno a una linearità pressoché da song, dal frenetico-incalzante all’ironico-parodistico, dal surreale al teatrale. Disco discontinuo (scusate il gioco di parole) quanto fascinoso.  

Sempre Marta Raviglia è protagonista, in duo col trombonista Tony Cattano, altra colonna di Franco Ferguson, dell’album Vocione (Monk Records), coevo di “Amazing Recording”, in cui i due dialogano con arguzia attorno a una serie di brani (quindici) che alternano le loro firme a quelle di Bartòk, Monk, Scarlatti, Jobim e Giuni Russo, il che la dice lunga sull’ampiezza prospettica in cui i giovani dirimpettai si pongono, non disdegnando la sovraincisione, così come effetti vocali Cattano e strumentali la cantante, in una continua operazione di mimesi che sa catturare senza mortificare mai il quid sperimentale proprio dell’intero collettivo.

E visto che Vocione è stato protagonista all’ultimo Open World Jazz Festival di Ivrea (vedi foto sopra), scantoniamo un attimo dall’assunto di partenza per dire di un altro musicista prodottosi al festival (anche lui in duo, col collega Maurizio Brunod), cioè il chitarrista romano (rigorosamente acustico) Giovanni Palombo (foto sotto), il quale, nel suo ultimo album, La melodia segreta (Acoustic Music), inciso in Germania nel gennaio 2011, attraversa undici sue composizioni in cui i vari input che informano il suo universo strumentale (di matrice eminentemente classica, ma non esente da influssi jazz e popolari, quanto meno), nel segno di una diffusa cantabilità, alla ricerca di una pulizia formale esemplare. Tutto ciò non disdegnando tecniche d’approccio allo strumento che fanno di Palombo un autentico virtuoso.

E visto, ancora, che come Franco Ferguson anche l’ottima rassegna di Ivrea trae linfa da un bel cenacolo di musicisti (Massimo Barbiero e il citato Brunod su tutti), segnaliamo come uno di essi, Loris Deval, a sua volta chitarrista squisitamente acustico, abbia di recente pubblicato un ottimo cd col suo Lorelei Quartet, organico dalla connotazione strumentale particolarissima (vibrafono, fisarmonica e contrabbasso, qui con violino aggiunto). Il disco s’intitola Seta (Dodicilune) e denota anzitutto un meritorio sforzo compositivo (sette pezzi, tutti di Deval), un elegantissimo sound individuale e d’insieme, una felice vena descrittiva e narrativa. Ne attendiamo il seguito.


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