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Migrazioni

Quinta puntata, e seconda del 2009, per la nostra rubrica dedicata alle terre – quelle dell’Arcipelago Jazz – che stanno di fronte (e spesso a contatto) con i lidi cantautorali della nostra Isola che non c’era. Alberto Bazzurro raccoglie e propone una serie di dischi di musicisti "migrati" verso un altrove di varia natura.
foto di Alessandro Carpentieri
Da uno degli svariati dizionari online: “migrazione = spostamento di una popolazione, di un gruppo di persone ecc. da un luogo a un altro”. Quindi spostamento di luogo, essenzialmente. Ma anche, adattando il concetto alle nostre esigenze, di stato (non geografico), stile, modus operandi, ecc. Lo spostamento di stato per eccellenza, per un essere umano, rimane quello fra la vita e la morte, dal tutto (potenziale) al nulla (altrettanto potenziale). Quando un musicista ci lascia, oltre alla sua memoria, ci rimangono i suoi dischi. Già esistenti o di là da venire. I famosi postumi, cioè. E visto che oggi, come recita il nostro titolo, parleremo di migrazioni, partiamo, doverosamente, proprio di qui, per l’esattezza da due dischi da poco sul mercato: una riedizione in cd di un vecchio lp e un inedito.
Il primo ci tramanda l’opera, non solo musicale, di Mario Schiano (foto sopra), indimenticato sassofonista napoletano, classe 1933, morto nel maggio scorso dopo lunga e penosa (anche per chi lo vedeva immobilizzato, praticamente muto, lui che era stato uomo tanto vitale e vivace) malattia. Non solo musicale, perché Schiano era anche animatore, organizzatore, catalizzatore di tutto un fermento, in particolare, fra anni Sessanta e Settanta: è stata la prima e principale figura del free jazz italiano, e poi, fra le tante altre cose, l’ideatore della rassegna romana “Controindicazioni”, da cui, appunto, il cd in oggetto, Benefit Concert (Splasch), proviene (anno 1989). Fanno ala al suo sax alto alcuni dei migliori improvvisatori europei, dai nostri Trovesi (una spanna su tutti) e Minafra, al trombonista austriaco Radu Malfatti, al notevole binomio tedesco composto da Peter Kowald (a sua volta scomparso nel 2002), contrabbasso, e Paul Lovens, batteria. La musica procede libera, qua e là accidentata, tutta attorno allo standard più caro a Schiano, Lover Man, prima blandito e adombrato in sei collettivi aperti, quindi affrontato più o meno canonicamente nell’episodio finale. Gli esiti, come sempre quando regna la più ampia alea, sono variegati, e comunque di sicuro spessore globale.
Nel 2005, di propria mano, ci ha lasciati invece Alex Rolle, percussionista canavesano appena quarantenne. Era quello che si dice un talento naturale. Aveva suonato, fra gli altri, con Odwalla, Franco D’Andrea (soprattutto), Rava, Bollani, Gato Barbieri. E nel disco di cui ci occupiamo oggi con i quattro sassofonisti torinesi del Saxea. Il cd s’intitola Southern Countries (Ondesferiche), è uscito a fine 2008 ma raccoglie incisioni comprese fra il ‘99 e il 2005. Ha un tono ludico e rassicurante, solare e discorsivo (lo apre e chiude la ben nota sigla di Carosello, e ci sono poi tarantelle, arie d’antan, ecc.), che finisce per penalizzarne un po’ gli esiti, talora piuttosto esili. Spiccano alcune pagine di Marco Tardito, principale penna del gruppo: Madrepora, illuminato dal soprano di Diego Borotti, Sirene, sorta di fascinoso salmo con Rolle anche alla voce, e soprattutto Nunzio va a scuola, il brano più ricco e articolato del lotto.
Batterista-percussionista è anche Paolo Vinaccia (foto sotto), discendente di una stirpe di liutai napoletani, che la sua migrazione l’ha compiuta proprio in senso geografico, trasferendosi nel 1979 in Norvegia, nel cui tessuto jazzistico si è ben calato, collaborando in particolare col chitarrista Terje Rypdal e col bassista Arild Andersen, al cui fianco appare nel recente Live at Belleville (ECM), in trio col tenorsassofonista Tommy Smith. Il cuore del cd coincide con la suite quadripartita Independency, fra algide, evocative sequenze schiettamente nordiche e rimbalzi coltraniani. Andersen, sempre seducente, conferma il proprio magistero strumentale, qua e là svariando sull’elettronica, mentre Vinaccia è aereo, obliquo e inventivo come sempre. Un signor  disco.

Prima a Londra e poi a Toronto si è trasferito un terzo batterista, il romano Giampaolo Scatozza, le cui migrazioni più impressionanti sono peraltro quelle di genere, visto che ha suonato, fra i tanti, con Bjork e George Lewis, Tom Jones e Trevor Watts, Paul Young e Osibiza. In coppia col fratello Stefano, a sua volta chitarrista e anima di Acustimantico, gruppo di adiacenze cantautoriali, ha da poco pubblicato Snow Cycle (Zone di Musica), in quintetto con Audun Waage (norvegese pure lui), tromba, Marcus Cummings, inglese, sax, e Rich Brown, canadese, basso. Il disco, decisamente jazzistico, evidenzia un sicuro gusto architettonico, non supportato al momento da altrettanta originalità.
Un viaggio tra geografie e poetiche diverse (nello specifico dai trascorsi del musicista) è infine quello compiuto da Roberto Ottaviano in Un Dio clandestino (Dodicilune), sua ultima fatica in quartetto con chitarra acustica, contrabbasso e batteria (Pinturas). I dieci temi, svolti per lo più fra il rapsodico e l’estatico pur non disdegnando aperture improvvisative a griglie più larghe, pescano infatti dal repertorio di Brasile, Spagna, India, Camerun, Svezia, Macedonia e Lituania, e sono attraversati da una danzabilità e una cantabilità esplicite, spesso lievi, decisamente etnicheggianti. Ci troviamo di fronte a una svolta, piccola o grande che sia? Ce lo diranno i futuri sviluppi che il sopranista barese imprimerà alla sua musica, da oltre venticinque anni contrassegnata da una specificità e una riconoscibilità indiscusse.




(09/02/2009)

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