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Paso doble

La pratica del duo ha preso piede nel jazz poco per volta, ma ormai da oltre trent’anni vi si è radicata, svariando dall’incontro sul rassicurante terreno degli standard a lavori fortemente personalizzati anche sul piano compositivo. La scena italiana, ovviamente, non fa eccezione. Ne scorriamo qualche esempio recente.


Oggi parliamo di duetti, formula presente nel jazz, sia pure a singhiozzo, fin dagli anni Venti (le coppie, entrambe tromba/pianoforte, Oliver/Morton e Armstrong/Hines) e poi, attraverso Ellington e Konitz, Dolphy e Coltrane (fra gli altri), sempre più esplicitamente, a partire dai Settanta, nel novero degli organici accettati da (quasi) tutti. Sono ormai più di trent’anni, quindi, che di duetti (fra l’altro piuttosto ben visti anche dagli organizzatori, per l’evidente contenimento dei prezzi che consentono) se ne registrano a ogni livello (anche se la formula riguarda in prevalenza la frangia più avanzata dell’universo jazzistico), fra i musicisti più disparati, anche divisi da salti generazionali e/o stilistici notevoli.

C’è ancora spazio, tuttavia, per qualche primizia. E’ quanto accaduto all’ultimo Bergamo Jazz, allorché Enrico Rava, oggetto di un focus personale, ha deciso di invitare al suo fianco il collega Gianluigi Trovesi (vedi foto in alto), enfant du pays. Ancora una tromba, quindi, stavolta con le ance (clarinetti e sax alto) del bergamasco (di Nembro). Terreno d’incontro sono stati una serie di standard, attraversati con leggerezza e souplesse (almeno questo si percepiva in platea) dai due decani del jazz italiano.

Si tenga conto di quest’ultima annotazione, perché, in tutto ciò che incontreremo d’ora in poi (sette cd freschi di stampa), troveremo solo composizioni originali delle accoppiate protagoniste delle singole incisioni, con rarissime eccezioni, comunque estranee all’ambito degli standard jazzistici: tre brani brasiliani (ma non certo di Jobim…), un tema tradizionale, e due reperti classici (Brahms e Corelli) debitamente rivisitati. I tre pezzi brasiliani si trovano in un unico cd, Miramari (Egea), il che è persino ovvio, visto che a dialogarvi col nostro Gabriele Mirabassi c’è il pianoforte del mineiro André Mehmari. I due hanno in comune, al di là dell’amore acclarato del clarinettista umbro per la musica brasiliana, la frequentazione dell’area classica e contemporanea, nonché folk. L’album è così di una congruenza assoluta: sette brani del pianista, tre di Mirabassi, il tutto nel segno di una pulizia di suono esemplare, un palpabile piacere per il dialogo a due (ci sono in verità anche un paio di brani in quartetto con basso e batteria), da un altissimo senso della forma.

Sempre un’ancia e un pianoforte stanno al centro di un album piuttosto distante, come clima, dal precedente, anche se con la stessa chiarezza di intenti e tracciati (e magari qualcosa in più sul piano squisitamente creativo): Reciprocal Uncles (Amirani) del sopranista Gianni Mimmo col pianista Gianni Lenoci. Qui il terreno è quello della sperimentazione di marca – diciamo così – post-free: Mimmo riecheggia una volta di più la magistrale lezione di Steve Lacy, mentre Lenoci appare qui più libero, ricettivo che mai. Vi domina un rigore veramente ammirevole, tracciati aperti per quanto – lo si avverte chiaramente – sempre sorvegliati, frutto di una progettualità palese. Che sta anzitutto in un esplicito senso di appartenenza a una data “costola” dell’improvvisare oggi. Maiuscolo.

Sempre un sax soprano, però alternato/sommato a sax alto e flauto, dialoga con un pianoforte in Sud America (Zone di Musica), in cui Eugenio Colombo e Luigi Bozzolan hanno raccolto una summa del lungo tour – appunto – sudamericano dell’autunno scorso. Come già in “Reciprocal Uncles”, i temi sono tutti originali, con punte di merito, di regola, per quelli in cui la temperatura tende ad alzarsi: Orlando, El Dorado, Cadice, storico cavallo di battaglia di Colombo, che vi si produce sui due sax simultaneamente, La Torre di Babele, di una circolarità anche qui quasi lacyana, Aridat e Violettango.

Il nome di Eugenio Colombo ci introduce in quello che è il secondo binario del nostro itinerario di oggi: il duo con la presenza della voce. Femminile, nello specifico, com’è appunto per il polistrumentista romano accanto a Raffaella Misiti (con lui nella foto qui sopra) in un singolare progetto intorno al songbook di Leonard Cohen, ancora inedito su disco ma che ha debuttato il 25 marzo al Testaccio di Roma. Edito – e del tutto consigliabile – è invece Morfeo (Monk) del duo composto dalla cantante e pianista Marta Raviglia, principale motore dell’incisione, e dal manipolatore elettronico (pure lui qua e là alla voce) Manuel Attanasio (foto in basso), album di spiccati appetiti sperimentali che ha il grande pregio di saperci una volta tanto stupire, attraverso un generoso ricorso alla sovraincisione e un uso – soprattutto – della voce articolato quanto ardito. Veramente una bellissima sorpresa.

Vocalità e percussione, nella sua più ampia accezione, accomunano poi Blastula.Scarnoduo (Amirani) di Monica Demuru e Cristiano Calcagnile, e Denique Cælum (Splasch) di Rossella Cangini e Massimo Barbiero. Li lega a “Morfeo” un occhio scopertamente “contemporaneo” (soprattutto nel primo caso), un utilizzo della voce fuori da parametri schiettamente jazzistici, oltre che, ancora una volta, la totale autarchia compositiva. Li differenzia, se vogliamo, una maggiore prossimità alla forma-canzone e una maggior distinzione dei ruoli in “Denique Cælum” (costruito attorno a testi di Edoardo Sanguineti), laddove in “Blastula” (e appunto in “Morfeo”, entrambi con qualcosa, qua e là, di popolaresco) la compenetrazione tra le forze in campo appare più spinta.

E chiudiamo con un album, Duolosophy Vol. 1 (Saint Louis), lontano da tutti i precedenti incroci strumentali. Ne sono infatti protagonisti una fisarmonica (Emanuele Rastelli) e un contrabbasso (Enzo Pietropaoli), che dialogano col palpabile piacere di farlo (come filosofia estetica, in effetti, non siamo lontani da “Miramari”), su temi spesso danzanti, intrisi di una cantabilità (una discorsività) mai rifuggita, anzi a tratti enfatizzata (specie nelle pagine di Rastelli, prossimi a stilemi compositivi à la Galliano). E qui, infine, che troviamo le rielaborazioni da Brahms e Corelli, peraltro non tra i vertici di un album di assoluta godibilità.

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