Potevano
diventare un gruppo “per tutti” gli Afterhours.
Ed erano lì lì per farlo quando, dopo tanti anni passati a fare musica in inglese
e con un solo disco in italiano all’attivo, cominciarono a farsi conoscere proprio
“da tutti”, nel 1997, con la pubblicazione di Hai paura del buio?, seguito tre anni dopo da “Non è per sempre”. Ma
ad un certo punto si fermarono, cambiarono rotta quel tanto che basta per non
diventare i Vasco Rossi dell’indie italiano, anche se il loro pubblico – quel loro pubblico – in fondo in fondo li avrebbe voluti così. Nel quarto
appuntamento della nostra rubrica non un disco “perdente”, ma un capolavoro del
rock italiano degli ultimi vent’anni da parte di un gruppo che “perdenti” ha
reso quei fan che li avrebbero voluti vedere a San Siro, accendino in mano, immersi
nella più stantia retorica del rock’n’roll.
Non avevamo capito veramente niente. Stavamo
tutti lì, come ebeti, con l'accendino acceso a cantare che volevamo una
pelle splendida e un bacio al colpevole, ma un colpevole che dica la
verità. Eccoci lì, pronti per farci travolgere da uno spirito quasi generazionale,
convinti di aver trovato il nostro personalissimo Blasco, un po' stronzo e poco
malleabile: una nicchia ecologica per snob d'altro bordo. Certo, a guardare
bene c'erano degli indizi inquietanti, nemmeno troppo nascosti, perché sui
giovani, Manuel Agnelli ci scatarrava
su. Mai niente di più di un “grazie, noi siamo Afterhours” e giù la violenza di Dea o la lucida agonia di Male
di miele. Noi lì a prendere appunti, incuranti di quegli occhi truccati di
nero, di quei ghigni quasi da pixie, di quelle maschere che facevano
tanto “Arancia Meccanica”.
Semplicemente non ce ne fregava niente, perché avevamo trovato un messia,
capace di dare dignità al rock (cantato in) italiano come mai nessuno prima.
Avevamo tanta, troppa voglia di urlare, ma non sapevamo contro chi. Questo
rapporto masochistico con gli Afterhours ci sembrava l'unica via di uscita a
vite che rischiavano tutte di infrangersi sull'asfalto di tante piazze
Alimonda. Come di lì a poco.
Hai paura del buio? mi sembrava un film di Dario Argento, pervaso com'è di una
tensione erotica così malata da risultare irresistibile. C'è qualcosa di
perverso nel chiedere se abbiamo voglia di diventare adulti, perché è quello
che si dice hai bambini quando è ora di diventare grandi: non avrai mica ancora
paura del buio, no? E noi dovevamo averla? Volevamo averla? Eravamo troppo
impegnati a decifrare testi profondi, ma al di là del nostro respiro,
inconsapevoli di chi fosse Burroughs,
morto – coincidenza – proprio nel 1997, e del cut-up. Tutt'al più
speravamo di poterci trasformare anche noi in rapaci per mutilare la pace
dentro il tuo cuore. E ancora: gioia sperimentale in silenzi
pornografici, per tacere della richiesta di lasciarti leccare
l'adrenalina. “Hai paura del buio?”
era un film di Argento, ma aveva in sé il gusto perverso di Bukowski, del
proibito. Era il rischio definitivo che oggi, dodici anni dopo allora, ci
trovassimo tutti a San Siro a urlare ancora quei testi come fossero slogan.
Eravamo sull'orlo di un baratro senza fondo e non ce ne rendevamo conto. Loro
sì. Perfettamente.
E decisero di spingerci giù, confezionando forse
il miglior disco pop italiano del decennio: “Non è per sempre”. Con Bianca, la titletrack, Baby
fiducia e Tutto fa un po' male credevamo che quel concerto di San
Siro fosse sempre più vicino, che Manuel Agnelli avesse accettato finalmente di
farsi toccare, come i sadhu, come i santi, come una madonna che piange
sangue. Per fortuna vennero “Quello
che non c'è”, già lucida riflessione sulla propria musica e sul proprio
ruolo di artisti, sebbene il prezzo sia stato il divorzio da Xabier Iriondo. E poi ci furono le “Ballate
per piccole iene” e quelle mani messe addosso a qualcuno del pubblico che
continuava a chiedere i pezzi come al karaoke. Gli Afterhours avevano deciso di
vivere una vita propria e di negare per sempre il concerto a San Siro. Ma
mentre cercavamo di capire chi fossero gli “estremisti edili” di 1.9.9.6.,
quelli che avevano in mano la città (ma quale poi?), mentre ci immaginavamo una
«vacanza di pietra senza memoria concreta» tutto questo non lo sapevamo.
Per lo spazio di qualche anno, neanche troppi,
uno o due forse, ci siamo aggrappati alle chitarre spigolose e potenti di
questo disco, poeticamente sorretto da un'ironia feroce e sempre giocato
sull'ambiguità. Non ci accorgevamo che quella musica stava giocando con le
nostre insicurezze, con il nostro totale spaesamento in un'Italia che si è
trovata di fronte al mondo dilatato del nuovo millennio senza che davvero
avessimo mai smesso di legare con la corda la valigia di cartone del migrante.
Perché gli Afterhours di allora non erano come noi. Stavano già fuggendo in
avanti. Ma com'è tipico dello squalo che avvista la preda, cominciarono a
girare a spirale, depistando chi non era abbastanza intelligente, fino a
giungere a una maturità che splende più di molte giovinezze. Allora noi eravamo
giovani, eravamo poco intelligenti e per risplendere avevamo bisogno di un pensiero
superficiale. Peccato, anzi, per fortuna, gli Afterhours non vennero mai a
salvarci.
Afterhours
Hai paura del buio?
1997
Mescal
01.
Hai paura del buio?
02.
1.9.9.6.
03.
Male di miele
04.
Rapace
05.
Elymania
06.
Pelle
07.
Dea
08.
Senza finestra
09.
Simbiosi
10.
Voglio una pelle splendida
11.
Terrorswing
12.
Lasciami leccare l'adrenalina
13.
Punto G
14.
Veleno
15.
Come vorrei
16.
Questo pazzo pazzo mondo di tasse
17.
Musicista contabile
18.
Sui giovani d'oggi ci scatarro su
19. Mi trovo nuovo