Il mondo
della Musica vive oggi una stagione difficile come mai, in cui tutti i sentieri
e le mansioni, i supporti e le possibilità sono messi a dura prova. Nella
scossa incertezza generale, seduti sulla conca bassa dell’onda lunga in atto,
nella settima puntata della nostra rubrica proviamo a contestualizzare la
situazione guardandola dal Sud Italia e dalla città più musicale di tutte,
Napoli, assieme a Ninni Pascale.
Parlare di musica – di dischi, concerti, ruoli...
– senza passare per “uno o più” studi di registrazione è come considerare una
nave senza tenere in conto la sala macchine: non solo si manca clamorosamente
quanto a propulsione, ma ci si priva pure della magia meravigliosa di ciò che
il meccanismo tutto custodisce fra sterno e polmoni: il cuore. «Lo studio Il Parco è nato come salaprove,
all’epoca suonavo con i Walhalla e come tutti i gruppi ad un certo punto
decidemmo di avere un posto nostro. Rispetto ad oggi, nel 1980 la cosa era più
complessa, non c’erano i computer ma i famosi Tascam 4, 8, 16 piste... Ci
mettemmo assieme con altri amici musicisti e la salaprove divenne a poco a poco
uno studio di registrazione». Ogni studio ha la sua storia e forma la
propria atmosfera a cominciare da chi ci passa, intessendosi al territorio e ai
suoi musi e suoni. «Agli inizi i gruppi
che frequentavano lo studio erano quelli della cosiddetta “Vesuwave”: Bisca,
Walhalla, Little Italy, Panoramics, il teatro di Mario Martone... Nel 1987 lo
studio da amatoriale divenne professionale, cominciai a stabilire contatti con
gli importatori frequentando il Sim a Milano e a registrare anche altre
situazioni, come Roberto Murolo, i fratelli Bennato, Enzo Gragnaniello». E
se la terra e la gente fanno da perno, cambiano invece i periodi intorno. «Negli anni ottanta lo studio era un posto
con cui si poteva campare, a Napoli la discografia che non era moltissima ma c’erano
anche i provini e poi il teatro; il famoso clichè attuale del ragazzo che si fa
il disco in casa non poteva esistere, perché i registratori a nastro erano dei
frigoriferi e avevano bisogno di spazio, manutenzione, tecnica. Negli anni novanta
s’è cominciato a sentire un po’ la crisi, è arrivato il digitale; in città noi
siamo stati i primi ad usare Pro Tools in registrazione e missaggio e non
solamente come editing, penso fosse il 1996». E’ colpa del digitale quindi se anche gli
studi di registrazione sono stritolati dalla crisi? «E’ il “contro” dell’hard disk recording. Ma la colpa non è di Pro
Tools, già con i registratori su cassetta Alesis la situazione si era
deteriorata, quella è stata la pietra miliare, perché era facile, mentre invece
Pro Tools lo devi studiare». E la teoria non basta. E qui torna il peana a
favore degli studi, in cui ci si confronta e s’impara, meglio e più
velocemente, perché si lavora con gli altri. «Lo studio aiuta a livello di concentrazione e a far tesoro delle
esperienze ad esempio del tecnico del suono, che non è solo quello che preme i
bottoni ma scambia idee sul lavoro: è un vedere le cose in maniera critica e
oggettiva, diversamente da quello che uno può fare a casa da solo». Nel
confronto “home recording versus studio professionale”, al discorso sulle nuove
tecnologie si potrebbe aggiungere il fatto che puntare alla massima qualità di
registrazione sembra uno spreco, visto che poi tanto la gente ascolta la musica
in file compressi come gli mp3. «E’ un
ragionamento simile a chi realizza un film anche se sa che molti lo guarderanno
in televisione invece che sul grande schermo. La verità è che se la
registrazione originale fa schifo, l’mp3 comunque farà schifo. Inoltre conviene
lavorare al meglio perché non si sa come andrà a finire, magari fra dieci anni
la situazione cambia in maniera drastica e potrebbe risultare assolutamente
importante avere registrazioni fatte bene. E poi io sono nato con la
rivoluzione dell’alta fedeltà, mi ricordo che negli anni settanta compravo le
riviste e passavo i giorni a vedere com’erano belli quegli amplificatori,
studiavo come costruire un ascolto migliore nella stanza... e non riesco a
tornare indietro». E come già quello dallo status di musicista allo studio
di registrazione, naturale è anche il passo che di lì porta ad aprire
un’etichetta discografica. «E’ stata la
logica prosecuzione della politica dello studio, anche perché a Napoli mancava
una realtà del genere. Ho aperto l’etichetta Polosud perché mi sentivo
partecipe dei lavori che registravo, ci si metteva amore e tempo e poi spesso
questi dischi facevano una brutta fine. Per fare uno studio di registrazione
devi avere delle motivazioni che vanno sicuramente al di là di quelle
economiche, se non c’è la passione, lo studio non funziona». E a proposito
delle diverse ondate che possono travolgere a seconda di decennio, la doppia
struttura (studio più etichetta) aiuta a stare a galla. «L’etichetta Polosud è nata nel 1993 in un momento in cui le cose per lo
studio non andavano proprio, e quindi, vivacchiando, lo ha aiutato. Mentre
adesso è il contrario: la gente si è accorta dell’importanza dello studio e c’è
una sorta di ritorno, e diversamente la discografia è a terra». Perché
anche nel destino della discografia c’entrano le persone e i modus vivendi. «Ora le vendite dei dischi avvengono, poco,
solo ai concerti; i ragazzi sono disabituati a entrare nei negozi di dischi e
gli unici che reggono sono i megastore. Potrebbe essere che la musica debba
necessariamente ampliare i propri orizzonti, perché il pubblico oggi è
viziatissimo dalla televisione; ma il discorso è addirittura a livello
filosofico, perché stiamo andando verso una società “al chiuso”. In questo
momento il dramma è che si cerca in tutti i modi di tenere la gente a casa, per
questo il teatro, la musica, il cinema sono in crisi».
Ninni
Pascale è
musicista, chief engineer dello studio "Il Parco" di Napoli e
direttore della casa discografica Polosud.