Se gli anni ’70 sono considerati
il decennio d’oro della musica italiana, gli anni ’90 non sono stati certo da meno. Tanti dei protagonisti della
musica italiana del 2008 vengono da lì (due nomi su tutti: Vinicio Capossela e
Afterhours) e tanti altri hanno lanciato in quel decennio gli ultimi sussulti,
per poi scomparire in modo definitivo o trascinarsi stancamente fino ad oggi.
Marco Boscolo riepiloga cosa è successo, non solo a livello musicale, nel
decennio dei “Creep” (come cantavano i Radiohead) e dei “Loser” (come cantava
Beck) partendo non dai dischi migliori del periodo ma proprio da quelli che dagli
anni ’90 ne sono usciti irrimediabilmente “perdenti”: per aver disatteso le
speranze del mercato, per aver deluso i fans (mentre magari le classifiche li
eleggevano a nuove galline dalle uova d’oro) o per aver semplicemente sancito,
con la loro stessa esistenza, che quanto cantavano Agnelli e soci per i “terribili”
’80 vale, seppur da prospettive piuttosto diverse, anche per il decennio “appena”
passato. Si comincia dagli Estra e
dal Nord-Est, band la cui agonia cominciata con Nord-Est Cowboys è coincisa con l’agonia di un luogo da cui tanti
di quei cow-boys cantati dalla band di Giulio Casale non hanno potuto fare
altro che fuggire via.
Mi
ricordo perfettamente quando ho acquistato Nordest Cowboys degli Estra.
Avevo appena lasciato la stessa terra, la stessa atmosfera immobile che Giulio
Casale canta nella title-track,
per l'Emilia-Romagna. Ricordo che ero emozionato, perché non avevo ancora
ascoltato nessun singolo (l'ho comperato il giorno stesso che è uscito, a
scatola chiusa) e dopo l'eccitazione per i primi due dischi, ero eccitato
all'idea di potermi chiudere nella mia stanza per gustarmi ogni singolo secondo
delle tredici tracce. Nordest Cowboys, poi, era cantata anche da uno
strano tizio, che ancora non capivo bene chi fosse, e aveva il nome
italianizzato di un musicista da samba: Vinicio
Capossela. Questo sarebbe arrivato dopo, in un'altra vita: più adulta e
distaccata. Perché la mia relazione con gli Estra sarebbe stata sempre legata
alle viscere, al fatto che cantavano di cose che conoscevo bene come il
cattolicesimo da oratorio (Cattolico sull'esordio “Metamorfosi”), perché venivano dalle
stesse colline cariche di vino da cui venivo io. E mi sembrava impossibile che
un band autenticamente rock venisse da Treviso, la città del sindaco-sceriffo
(c'era già, c'era già), dell'Ombralonga (l’usanza di andare in tour osteria dopo osteria fino ad
ammazzarsi di alcool) e del benessere ostentato. Chi mai avrebbe potuto
immaginarsi storie maledette, come si conviene a tutto il rock, o di degrado in
un posto ordinato come un giardino zen? Io pensavo che un luogo che non accetta
la lingua italiana nella sua vita pubblica non aveva nemmeno la cultura
necessaria per guardarsi da fuori e criticarsi a suon di canzoni rock. Certo,
mi sbagliavo, nella mia naiveté di tardo adolescente, e sarebbe arrivato
a salvarmi Marco Paolini, con il suo
raccontare e raccontarsi negli “Album”.
E sarebbe arrivata la poesia di Andrea
Zanzotto, che racconta degli “infiniti rivolgimenti” delle colline del
Soligo e che elevava il Filò
a storia universale in dialetto veneto. Ma allora, all'epoca di questo disco,
io non conoscevo che la mia rabbia generale e generalizzata per Treviso e la
sua provincia.
Estra,
poi, significano anche l'ultimo loro concerto a cui ho assistito, qualche anno
fa, prima della definitiva ibernazione del gruppo. Era una serata estiva, a San
Vendemiano, provincia nord a confine con il Friuli. Concerto gratuito,
fortemente voluto dal gruppo di giovani che aveva organizzato la festa della
birra. Accolto dallo striscione San Vendemiano Sucks! (“San Vendemiano
fa schifo!”), ero snobisticamente ripiombato nella mia tristezza verso Treviso
e connessi: ma come si fa a autodenunciarsi così? Pensavo che fosse un errore
dettato dall'ignoranza – quella stessa ignoranza che imputavo a tanta gente che
ho lasciato per la chimera di Bologna. Beh, inutile dire che ancora una volta
mi sbagliavo. Perché quando quella sera Giulio
Casale, Abe Salvadori, Eddy Bassan e Nicola Ghedin salirono sul palco le centinaia di ragazzi e ragazze
che sorbivano distrattamente le loro birre improvvisamente si animarono
cantando a memoria strofe infuriate contro l'immobilismo, contro la stanchezza
di un mondo patinato e privo di cuore, allora cominciai a capire che gli Estra
sono stati – e sono tuttora per molti come me – un riferimento culturale, i
primi che hanno sdoganato il rock in una terra che sa a memoria solo “Signore delle cime” o “Il Piave mormorava”. Per la prima
volta mi accorsi che la mia terra è costellata di uomini che hanno saputo
cantare, anche se in prosa: Luigi
Meneghello (“Libera nos a Malo”:
signore liberaci tutti dal destino di essere nati qui), Goffredo Parise (la falsa credenza religiosa della provincia), Giuseppe Berto. Li rividi negli occhi
di chi c'era quella sera, durante quello che tutti sapevamo sarebbe stato
l'ultimo tour degli Estra.
Dunque
a una band così umanamente immensa possiamo perdonare questo disco ingenuo e
retorico (la title-track con la voce di Capossela: l'unica cosa che la rende
sopportabile), tanto imitativo dei propri miti (Bubola e Dylan in Signor
Jones). Un disco diviso a metà dalla voglia di Casale di essere cantautore
e – probabilmente – un DNA del resto della band che rimane maledettamente rock.
Gli si perdona un brano brutto – e dal titolo ancora peggiore – come Surriscaldando
mia madre o le ingenuità di Drugo e Will You Be My Love?. E
vogliamo ammettere che ci siamo anche emozionati per un brano facile, con un
testo tra i meno ispirati di Casale come Che vi piaccia o no, rock da
stadio con il suo bel ritornello da urlare a squarciagola (come a San
Vendemiano). Gli si perdonano i calchi da rock anglosassone di Broken Down,
non certo tra le anime più inquiete della produzione Estra, e gli si perdonano
anche gli altri brani, che presto scivolano nella memoria senza lasciare
traccia e, infatti, sono stati poche volte proposti anche dal vivo. Nordest
Cowboys è il disco che ha decretato la fine degli Estra, prima
ancora del passo completamente falso di “Tunnel
Supermarket”. Un disco che mi fa pensare che anche quella provincia
trevigiana non esista più, perché tutto è più grande, delocalizzato e
globalizzato, tra la Cina, la Romania, la Moldavia. Ed è una terra che con il
17-18% di immigrati tra la popolazione, non riesce ancora a pensarsi
multiculturale.
Gli Estra:
ancora durante quel concerto di San Vendemiano, durante la loro lenta agonia,
durante questi pochi anni in cui ce ne siamo andati in tanti e ancora di più
sono arrivati da oltremare. In queste canzoni di pancia c'era un sentire
profondo che il tempo non può cancellare. Non le ritroveremo nelle pagine delle
Storie della Musica Italiana, ma dimenticarle sarebbe un atto di ingiustizia
culturale. «Scomparire dire addio
fuggire / E' una vita che lo sento dire / Ma schegge di voialtri / Ci spezzano /
Io sono pronto / Io vengo a prenderti».
Estra
Nordest Cowboys
1999
Artes Records/CGD
East West
01.
Signor Jones
02.
Nordest Cowboy
03.
Drugo
04.
Piombo e carbonio
05.
Vorrei vedere voi
06.
Soffochi?
07.
Broken down
08.
Diversa e perversa
09.
Che vi piaccia o no
10.
Surriscaldando mia madre
11. La parte
12. Will you be
my love?
13. Vieni