Tante corde, di chitarre, archi e altro, e poi tasti di pianoforte, ospiti internazionali e un paio di album monografici, fra “sdoganamenti” necessari e non.
Oggi partiamo da due strumenti ad ancia, seppur di famiglie diverse: un fiato e un mantice, il clarinetto basso di Simone Mauri e la fisarmonica di Flaviano Braga, protagonisti dell’ottimo Speck & Zola (Caligola), disco vivo come pochi, sempre sul filo di un interplay tanto palpabile quanto godibile, ma non per questo esteriore o meramente spettacolare: c’è tanta sostanza, invece, nel dialogo tra i due comaschi e il godimento viene di conseguenza.
Procedendo spediti (tredici dischi, stavolta), ecco un altro clarinetto basso (qui un po’ in sottordine, invero) in un trio, New Landscapes, di tutt’altra pasta, squisitamente classico (nel senso di non jazzistico, ma il nostro è un arcipelago, per cui...) con periodici afrori orientaleggianti, accanto a due cordofoni (centrali, in questa puntata), un violino e un liuto (più oud), entrambi barocchi. Il disco s’intitola Rumors (Caligola) e non accende come il precedente, ma lascia ammirati per aplomb e compostezza. Fra i temi (dodici), anche la più celebre Gnossienne di Satie e un brano di Anouar Brahem.
Corde più che mai in auge in Djambolulù (Visage Music) dello Swing Trio (foto in alto), due chitarre, Maurizio Geri (anche voce) e Jacopo Martini, e Nicola Vernuccio al contrabbasso. Godimento assicurato anche qui, nel segno del sacro verbo manouche (Django Reinhardt ne è il profeta incontrastato, ce lo dice pure il titolo), verve frizzante e incastri oliatissimi. Un piacere per l’orecchio e non solo.
Contrabbasso out per un duo di sole chitarre (e maglie un po’ più larghe) in Kintsugi (UR) di Maurizio Brunod e Lorenzo Cominoli, brani loro (fra cui tre impro) e di Garrison Fewell, Rava, Sam Rivers e Djavan. Terreni, come detto, non così fitti, ma tipicità chitarristica totale, fra danzabilità, accenni di contrappunto e intrecci vari (acustico-elettrici), ciò che accade anche in Jaggae (Filibusta), sempre a due firme, Francesco Mascio ed Emiliano Candida, ovviamente a loro volta chitarristi, però, qui, con ospiti a spot, fra cui la tromba di Angelo Olivieri. Le firme che si affiancano ai due leader qui sono Ellington, Parker, Bob Marley, ecc. La programmaticità del titolo è del resto chiara: riunire jazz e reggae, ciò che riesce abbastanza, anche se il prodotto finale, assai esuberante, non brilla di particolare originalità.
Una coppia più agenti esterni è quanto ci propone, su terreni decisamente più arditi, Actionreaction 1 (Slam), dove il sassofonista (soprano e baritono) Stefano Franceschini e il tastierista Sergio Corbini, entrambi anche all’elettronica, operano sulle sollecitazioni del pittore Pippo Lionni, la cui spatola (in un brano anche il pianoforte) compare a sua volta come “voce” aggiunta. Non tutto è memorabile, ma l’idea c’è, e comunque la cosa va senz’altro vista più che meramente ascoltata.
Passati ormai nella parrocchia delle tastiere, proseguiamo con Chapter Two (Caligola) del quartetto Less of Five, facente capo (quasi tutti suoi i temi) al pianista ragusano Giorgio Occhipinti, con un altro nome storico del jazz siculo, Pino Guarrella, al contrabbasso. In effetti l’aspetto compositivo risulta nodale, nel progetto, in felice equilibrio con gli sviluppi improvvisativi. C’è una grande chiarezza di scrittura, ancor più marcata, a conti fatti (anche se lungo vie più contigue al mainstream), in un altro cd, Persistency (Alfa Music), per quartetto con sax e trio, qui guidato da un’altra pianista siciliana, benché da tempo americana d’adozione, fra USA e Canada, la messinese Cettina Donato (foto sopra). Tutti americani i partner (fra loro il grande batterista Eliot Zigmund), per un album svolto attorno a una cantabilità solida e diretta.
Sempre da Messina arriva Giovanni Mazzarino, lui pure pianista, che però nel suo ultimo cd, Pianiparalleli (Jazzy), salta il fossato (non è la prima volta) proponendosi anzitutto come compositore, per quartetto jazz (completato da pezzi da novanta quali Fabrizio Bosso alla tromba, Steve Swallow al basso e Adam Nussbaum alla batteria) e orchestra d’archi (arrangiata e condotta da Paolo Silvestri), partorendo un ibrido abbastanza prevedibile in cui di rado (certe sortite di Bosso e poco altro) gli esiti tengono dietro alle ambizioni.
Discorso analogo per Mino Legacy (Crocevia di Suoni), con cui il sassofonista Felice Clemente intende dare nuova dignità niente meno che a Mino Reitano, suo zio nonché – a quanto risulta – mentore del suo essere musicista. Ciò si traduce in un lussuoso cofanetto con cd (brani di Reitano riletti in jazz, in quartetto, di tratto scopertamente mainstream), dvd (fra l’altro con spezzoni originali dell’omaggiato) e un volumetto, in italiano e inglese, scritto da Andrea Pedrinelli. Il tutto dà l’impressione di un discreto arrampicamento sugli specchi, pur nell’onestà – non ne dubitiamo – dell’operazione.
Fra Mazzarino e Clemente si colloca idealmente Evansiana (Dodicilune) del bassista pugliese Pierluigi Balducci: col primo ha in comune le prestigiose presenze (sempre un quartetto, con Paul McCandless alle ance, il compianto John Taylor al piano e Michele Rabbia alle percussioni), con Clemente l’omaggio, in questo caso senza necessità di rivalutazione (non ce ne sarebbe motivo) essendo il dedicatario Bill Evans. Gli esiti sono peraltro anche qui così così: eleganti, certo, ma anche un po’ scolastici, di maniera, con la netta l’impressione che questo gruppo potesse dare di più.
Di più poteva dare anche il quartetto artefice di Petretti Sound (Caligola), visto che il suo leader, il sassofonista romagnolo Fabio Petretti, autore di tutti i brani in scaletta, è stato per anni la principale mente di uno dei più brillanti quartetti di sassofoni sorti in Italia, Thi-Sha-Man-Nah. Qui si batte bandiera post-bop dura e pura, e tanto basti.
Sempre originale, con un’identità chiara (e il vibrafono al posto del piano) si conferma per contro il veneto-friulano XY Quartet (foto sopra) nel recente Orbite (nusica.org), che ribadisce i punti focali di una proposta ormai ben cementata: un incedere anticonsolatorio, rigoroso, a tratti anche spigoloso (di emanazione post-berniana, lo definiremmo), col collettivo a prevalere sui singoli (che ovviamente dicono comunque la loro). Una bella risposta a certi eccessi individualistici che il jazz di oggi accarezza con fin troppo gusto, senza averne neppure tutte queste reali risorse umane, se non meramente tecnico-sintattiche. Meditate gente, meditate.
Foto di Lorenzo Gori (Swing Trio) e Michele Giotto (XY Quartet).
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