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Suoni AnceStrali

Ance semplici e doppie attraversano terreni variegati di cui caratterizzano più o meno massicciamente lo svolgersi: da Hendrix al free, da una ritualità atavica alla ricerca cameristico-contemporanea, ad altro ancora.

L’ancestralità delle ance, e l’ancestralità della musica, intesa sia come background cui riferirsi che come repertorio da reinventare. Su quest’asse ruota l’odierna puntata della nostra rubrica, in cui gli strumenti ad ancia – sassofoni, clarinetti, ma anche fagotto e controfagotto, ad ancia doppia – giocano un ruolo diversificato da caso a caso.

Partiamo con un duo, quello formato dal sassofonista (baritono) e clarinettista (basso) torinese Carlo Actis Dato (foto in alto) e dal contrabbassista galiziano Baldo Martinez, protagonisti del recente Sonidos de la tierra (Universal), dove la corporeità festoso-ritualistica tipica del primo viene felicemente stemperata dal secondo, specie allorché impugna l’archetto. Ci sono così momenti più sognanti e cogitabondi, accanto a cadenze serrate e opulente.

Un clima altrettanto pieno, però più scabro, privo delle rifiniture del succitato duo (si tratta del resto di improvvisazione totale), caratterizza Baboon (Rudi Records), live bavarese (Monaco) di un anno fa esatto in cui l’arco è il violoncello di Tristan Honsinger e le ance si raddoppiano: Enrico Sartori, friulano, al sax alto, e Tobias Delius al tenore, più entrambi ai clarinetti. La partenza è fulminante, fra il meditativo e l’incandescente, poi la pratica si fa un po’ ripetitiva (fatto quasi fisiologico, del resto), tendendo ad abbassare non poco l’effetto-sorpresa, l’imprevedibilità del tutto. Il che non impedisce che si registrino altri picchi (per esempio nella sesta e nella decima traccia).

Due ance, però su terreni diametralmente opposti, alimentano anche il quartetto Tidal, al centro del notevole A Windy Season (Amirani). Si tratta del sax soprano di Gianni Mimmo e del fagotto/controfagotto di Alessio Pisani, più due ottoni, la tromba (e flicorno) di Mirio Cosottini e il trombone (e non solo) di Angelo Contini, per una musica dal prezioso incedere cameristico-contemporaneo, peraltro non senza impennate più nervose e vociferanti.

Il raddoppio delle ance segna altri due cd in cui la corporeità, pur se non poco divergente, è elemento-chiave. Il primo è From The Heal (Parco della Musica) targato Puglia Jazz Factory, quintetto con Gaetano Partipilo e Raffaele Casarano ai sassofoni (dal contralto al sopranino) più piano, basso e batteria (Signorile/Bardoscia/Accardi). Qui la corporeità è più solare, aperta, non di rado funkeggiante, laddove nell’altro cd, La società delle maschere (Rudi Records) del Dinamitri Jazz Folklore, settetto col leader Dimitri Grechi Espinoza e Beppe Sordino alle ance, più violino, organo, chitarra e doppia percussione, si vira verso un ritualismo a volte epico e quasi solenne, altrove più crudo, impastato di Africa (specie allorché, sul finire, si aggiunge la voce di Piero Gesuè) e reminiscenze free.

 

Gli ultimi due album che incontriamo fanno per parte loro registrare una tangibile inversione di tendenza, con l’elemento-ancia che si fa alquanto minoritario. Vediamo come. I due leader, intanto, sono un chitarrista, Antonio Jasevoli, e un batterista, Fabrizio Sferra (foto sopra). I sassofoni, poi, si dimezzano, e non sono neppure presenti ovunque. In My Own Experience (Zone di Musica) di Jasevoli, l’ancestralità – per tornare al concetto di partenza – è rappresentata dalla musica di Jimi Hendrix, ora riproposta sic et simpliciter, con quel suono di chitarra così riconoscibile, identitario, ora trasfigurata dalla mano di Jasevoli (ma c’è anche Muffin Man di Frank Zappa). La varietà dei tracciati viene in tal modo a costituire il principale atout del lavoro, cui concorrono fra gli altri Antonello Salis e, al sax tenore in metà circa dei brani, Marcello Allulli. Recrudescenze e giocosità varie convivono quindi in un pot-pourri non privo di sorprese.

Ben poca ancerstralità, per contro, è coglibile in Untitled #28 (Via Veneto), album raffinato, astratto e frastagliato del quartetto di Sferra, se non al limite nel suono pastoso e scuro del sax tenore di Dan Kinzelman (impegnato anche su clarinetto e clarone) che in parte riprende, prosciugato, il mood di certi antichi balladeurs. Un disco di sicura classe, magari non originalissimo ma sempre in possesso un quid che lo rende riconoscibile. Merito, anche, del pianoforte di Giovanni Guidi (completa i ranghi il bassista di Chicago Joe Rehmer).  

 

Foto di Alberto Bazzurro


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