Nell’ottava
puntata delle nostre peregrinazioni tra i vari isolotti dell’Arcipelago Jazz Alberto Bazzurro ci
guida tra le uscite più importanti degli ultimi tempi per quanto riguarda una
delle formazioni fondamentali della “musica improvvisata”: il trio.
Il
trio è da sempre una delle formazioni-cardine del jazz. Trio, in primis, piano
(o chitarra), basso e batteria, benché a volte, specie dagli anni sessanta, con
un fiato, per lo più un sassofono (Rollins, Ornette, ecc.), al posto del piano.
In verità fin dagli anni Cinquanta (ma episodicamente anche prima), e
massicciamente con l’avvento del cosiddetto post-free (quindi grosso modo dal
’70 in poi), si sono affermati trii privi di uno o più degli strumenti canonici
(ricordiamo per esempio Braxton/Smith/Jenkins, cioè ancia/tromba/violino), spesso di tratto squisitamente cameristico, astratto, incline a uno
sperimentalismo non esente da inflessioni contemporaneo-colte.
Oggi
ci occupiamo appunto di formazioni del genere, trii (a volte “aumentati”, come
vedremo) più o meno lontani dall’assunto di partenza. Decollando, in realtà,
dal più “canonico”, un trio con sax tenore, contrabbasso e batteria. E’ quanto
ci offre un cd che potrà far alzare le antenne anche ai non-jazzofili, trattandosi
di Nostos (Sudiottanta), firmato
congiuntamente da Antonio Marangolo,
Ares Tavolazzi e Ellade Bandini (foto in alto). I temi, in realtà, sono tutti di Marangolo, tranne il quinto, che è poi Alle prese con una verde milonga di
Paolo Conte, che vi compare pure, al
piano (ecco il primo, pur episodico, plus
della nostra carrellata). Il disco, per il resto, è corretto, ben suonato e
ben condotto, anche se latitano un po’ le idee fulminanti. Il tenore di
Marangolo lo attraversa col suo timbro brumoso, sostenuto sempre a dovere da
Tavolazzi e Bandini.
Per
contrasto, eccoci al trio più inusuale, propostoci da un altro cd a tre firme, Rough Energy (Cat Sound), col flautista
veronese Stefano Benini, qui in verità quasi sempre al
didjeridoo, l’inconfondibile “tubo” degli aborigeni d’Australia (foto qui sotto),
affiancato da due percussionisti, Roberto
Facchinetti e Massimo Rubulotta,
più, ripetutamente, tre ospiti che di fatto raddoppiano lo strumentario descritto.
L’impatto iniziale è forte, poi l’insistere su tracciati (soprattutto timbrici)
un po’ troppo univoci finisce per generare un certo appesantimento.
Ancora
a tripla firma, ecco due album della Amirani, Serendipity e Cono di ombra
e luce. Il primo (live) conserva le percussioni (Marcello Magliocchi), abbinandole col violino del portoghese Carlos Zingaro e il piano di Gianni Lenoci (pugliese come
Magliocchi). Il risultato è ottimo: cinque improvvisazioni apertissime,
concettuali, ora scure, nervose, ora più rilasciate. Il secondo cd si deve
invece all’Ea Silence, trio
elettroacustico con Mirio Cosottini,
trombe e flicorno, Alessio Pisani, fagotto
e controfagotto, Luca Cartolari,
basso e live-electronics. Qui le cose non vanno sempre nel verso giusto (la
musica si rivela un po’ ingessata, austera, troppo monolitica), ma il lavoro
merita comunque grande rispetto, per l’inusitato assortimento strumentale e il
rigore che lo anima.
A
mo’ di sandwich fra i due Amirani, potrebbe tranquillamente inserirsi un altro
cd di estrema coerenza, qui, però, servita al meglio sul piano inventivo e
degli esiti formali. Si tratta di Friulan
Sketches (Psi) del grande pianista tedesco Alex von Schlippenbach, figura-cardine del free jazz europeo. I
venti brani che lo compongono sono altrettante libere improvvisazioni nate
dalla sinergia col cellista giramondo Tristan
Honsinger e col clarinettista Daniele
D’Agaro. Inciso a Udine nell’aprile 2008, il cd è schiettamente friulano:
da lì proviene D’Agaro, lì (a Trieste) vive attualmente Honsinger, di lì è
transitato Schlippenbach. E così è nato questo piccolo capolavoro, tutto
giocato in punta di interplay (non quello tradizionale, si capisce) fra tre
uomini adusi alla musica senza rete. Magistrale.
Tromba,
violoncello, percussioni ed elettronica interattiva (quindi, di fatto, un
autentico trio plus), a compendio di
quanto incontrato sinora (“Nostos” escluso, se vogliamo), caratterizzano
un altro album di notevole livello, a
maggior ragione arrivandoci da un musicista non notissimo, il trombettista romano
Angelo Olivieri (foto in basso). Si
tratta di Caos Musique (Terre
Sommerse), che a dispetto del titolo è lavoro di assoluto rigore strutturale.
Impreziosito dal cellista francese Vincent
Courtois, il disco può rimandare al trio Miniature di Tim Berne (ma anche a
certo Davis elettrico), ed è comunque poco raccontabile. Contiene diciotto
brani (per lo più di Olivieri), unitari anche proprio nel largo spettro dialettico
che li attraversa, sorvegliato quanto creativo, spesso imprevedibile. Un
autentico toccasana in tempi così omologati.
Un
altro indiscusso trio plus ci arriva
da Bartokosmos (Auand), dove un trio
stabile, il torinese 3Quietmen,
incontra uno dei nostri migliori pianisti, Stefano
Battaglia, in una libera rilettura di dieci dei 153 Mikrokosmos di Bela Bartok. Torna la tromba, tornano basso e
batteria, ma l’elettronica è a sua volta dietro l’angolo. La somma di tutti
questi elementi è un album che si fa preferire negli episodi più soffici,
eleganti e persino un po’ ritrosi, con tromba e piano (magari non insieme) al
centro del proscenio (i Mikrokosmos 48,
98, 63 e 41, per esempio).
E
chiudiamo con un musicista che del trio (ma anche del solo) ha fatto una sorta
di religione, il chitarrista Lanfranco
Malaguti, il quale, in Double Face (Splasch),
ci propone il suo quartetto nuovo di zecca (trio più sax). Ma attenzione: il
totale si ascolta solo in parte dei tredici brani, spaziando gli altri dal solo
al trio, con un occhio particolare per il duo, dove la chitarra si unisce di
preferenza al più dotato dei tre rampolli, il batterista Luca Colussi. Il risultato è un disco vario e intelligente, che se
preso per il verso giusto potrà schiudere a Malaguti nuovi luminosi orizzonti.