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Un Novissimo: le storie di Paolo Fiorucci

E, in una rubrica che si chiama Cantautori novissimi, dopo Vecchioni è davvero il caso di occuparsi dei nuovi. Lui è senza dubbio uno dei più interessanti emergenti della leva cantautorale italiana, si chiama Paolo Fiorucci e ha prodotto da poco il suo primo EP Sei personaggi in cerca di cuore.

Classe 1984, Fiorucci arriva al primo disco dopo una ricerca musicale che l’ha spinto a sondare i terreni di diversi generi, che riesce a convogliare nella più classica tradizione della canzone d’autore italiana. Francesco De Gregori, Sergio Caputo, Fabrizio De André, Edoardo Bennato, Francesco Baccini, Roberto Vecchioni e altri ancora, il tutto rivisitato attraverso una poetica ben riconoscibile, per storie che parlano di oggetti inanimati che rivendicano un posto nel mondo e un cuore, metafora della solitudine del tempo d’oggi ma anche arcigna resistenza alla barbarie. Quello che più colpisce nel disco è il preciso percorso che creano gli arrangiamenti, curati da Vito Di Virgilio, che rappresentano una vera e propria spia della poetica di Fiorucci. Vediamo perché.

Da tempo il cantautore esegue dal vivo una canzone che si chiama Il regno di Pop, in cui re Pop impone regole, condizioni e forme artistiche alle canzoni; questa canzone ha un arrangiamento precisamente pop, secondo la stessa logica per la quale per esempio Simone Cristicchi cantava di Biagio Antonacci, per intenderci. Ecco, Il regno di Pop è probabilmente la canzone-manifesto della poetica di Fiorucci: in Sei personaggi si comincia con la canzone Caro capitano, in cui l’arrangiamento decisamente modaiolo rappresenta un punto di partenza da cui ci si distacca man mano durante tutto l’album, fino ad arrivare all’uscita dal pop, all’emancipazione nell’ultima canzone del concept, C2-36.

In mezzo ci sono altre storie, in cui Fiorucci si serve di altrettanti generi: da Al di là della vetrina in cui si parla di un manichino per una ballad natalizia, fino a uno spaventapasseri country con Penso forse sono, passando per una macchina da fototessere del brano Facce da documento e un portiere del calcio balilla a tempo di bossanova in Chi perde paga. Prima di C2-36 c’è la palingenesi nel brano intitolato La creazione, strumentale, scritto da Vitale Di Virgilio.

I diversi generi servono a Fiorucci per veicolare i racconti irrequieti di esseri incompatibili con la società, per creare il movimento del corpo sinuoso di questi magnifici perdenti disadorni al mondo, che si districano dalla materia informe e magmatica del pop, come un David che esce dal blocco di marmo a forza di sgomitare, a forza di divincolarsi. D’altra parte il brano La creazione presenta proprio dei volteggi circolari, un opificio melodico vorticoso, una dinamo primigenia, come una rincorsa, come un atleta del lancio del peso che gira su se stesso e scaglia l’oggetto con un accordo di FA sospeso. Proprio così, con la grazia di una farfalla che esce dal bozzolo, si staglia limpida e fiera C2-36, che raccoglie quell’accordo di FA e tra chitarra-voce e teatro-canzone veleggia con tutte le prerogative della canzone d’autore più pura, da De André a Gaber. Si arriva a quello che nel testo viene chiamato «l’automa perfetto/ il più umano tra tutti i robot», una creatura che cerca una identità e la trova nel circo, realtà capovolta che però la inchioda a non essere se stessa.

Fiorucci dunque usa la musica, non è usato da essa, dalla forza evocativa a cui troppi autori di canzoni oggi si prostrano supinamente, finendo per dire niente. In Sei personaggi in cerca di cuore tutto significa, tutto è funzionale al messaggio. Prendiamo Facce da documento, dove già nella struttura del brano, in quello che esce fuori dalla ‘penna’ di Fiorucci – una penna che suona una chitarra a tracolla – viene fuori l’essenza del pezzo: la macchina per le fototessere vede passare tante facce ma non ne conosce nessuna, così la musica presenta dei cambi di ritmo come una spola, differenza tra il mondo esterno e l’interiorità, l’altrove della tendina grigia, se non dello schermo. I cambi di ritmo valgono quanto le parole, e alla fine anche il tempo della canzone significa, e rallenta perché la macchina vorrebbe rallentare «l’attimo di messa a fuoco/ perché una vita per capirvi è poco»: vorrebbe preservare l’empatia di un momento, prolungarla appunto. Ma tutto si perde nella temporalità e nelle esigenze del tempo veloce dei nostri giorni, e il tempo riaccelera d’improvviso, con l’obiettivo – parola fredda e tecnica – «schivo e sbrigativo»: si fa la foto e si passa al prossimo volto.

Con questi presupposti ovviamente l’ultimo pezzo, quella che potrebbe chiamarsi bonus track e che poi è la cover del brano Il nostro caro Frankie di Marco Ongaro, canzone del 1987 riarrangiata per un set di fiati – ricordiamo che Paolo Fiorucci è anche sassofonista –, segue l’andamento del disco e lo suggella, parlando di una creatura artificiale che questa volta è la canzone stessa, quando è fatta a tavolino per creare un ritornello che «Funziona!».

Non è certo un caso che Fiorucci abbia scelto una canzone di Ongaro per chiudere il disco; oltre alla chiara vicinanza tematica della canzone, infatti, Ongaro rappresenta uno di quei cantautori che dagli anni Ottanta in poi proseguono il modo di fare canzoni della generazione precedente, sfruttando quel linguaggio e cavalcandone le potenzialità. Fiorucci, foglia verde di quell’albero genealogico, scegliendo Ongaro urla una dichiarazione di appartenenza che si pone alla metà esatta tra la musica e la poesia, finché ci sarà «un canto, una melodia e un motivo per cantare».

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