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Vita e morte (aspettando i miracoli)

Dischi figli di un momento storico particolarmente travagliato e doloroso?
Anche, fra percussioni, voci e una significativa presenza femminile

 

Fra Covid e Ucraina, non è che la nostra storia recente ci abbia offerto particolari motivi di gaudio. In attesa di sviluppi più o meno miracolosi che ci accompagnino fuori dal fatidico tunnel, siamo qui a verificare come il clima piuttosto plumbeo in cui ci troviamo a muoverci da oltre due anni si stia riverberando sui vari versanti della nostra vita e della nostra società. La gente di spettacolo e i musicisti nello specifico, sono notoriamente fra le categorie più penalizzate dall’attuale contingenza, anche proprio per una questione di sopravvivenza quotidiana, salvo nomi più affermati o coloro che possono vantare incarichi istituzionali, in conservatori e scuole varie. Tutti gli altri (la stragrande maggioranza) in quanto musicisti (cioè se privi di altri mezzi di sostentamento) vivono una precarietà spesso destabilizzante, il che magari segna anche la loro produzione, come, singolarmente, ci dicono i tre album con cui apriamo la nostra puntata odierna, che poi – per fortuna – toccherà anche altri terreni.

Il primo dei tre album in oggetto è opera di LupMorthy (sic, al secolo Luca Recchia, milanese), s’intitola Requiem for a Tree (Urtovox) e quanto meno non riguarda specificatamente una persona, bensì un albero. Non si tratta di un disco di jazz (è uno dei tanti isolotti che compongono il nostro arcipelago), muovendosi invece in ambito elettronico-atmosferico, con tocchi soprattutto clarinettistici, fra gli extra (sette gli ospiti, qua e là), generando un corpus molto coeso, conseguente, che ci accompagna per tre quarti d’ora con più di un motivo d’interesse.

I successivi due album, dai titoli inequivocabili, si devono a Massimo Barbiero (foto in alto) e ci introducono nella seconda “scatola” del nostro excursus, le percussioni, specie il primo, In hora mortis (Music Studio), col musicista eporediese solo con i suoi “attrezzi” (batteria, marimba, vibrafono, gong, ecc.), a raccontarci una storia come sempre (i lavori in solo sono una costante per Barbiero) fatta di misura e buon gusto, tinte mai troppo accese, con la componente timbrica regolarmente prioritaria. La stessa misura si ritrova (con qualche maggiore increspatura) in Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (sempre Music Studio), per il cui titolo, anche in questo caso inequivocabile (e più ancora la copertina, fosca, inquietante), dopo Bulgakov e i classici (fra gli altri), Barbiero si rifà a Pavese, nello specifico condividendo la responsabilità del cd con Eloisa Manera, violino (e prima delle svariate presenze femminili odierne), ed Emanuele Sartoris, pianoforte, entrambi con un’impronta “colta”, più classica in Sartoris, più contemporanea nella Manera, che arricchisce non poco lo spettro espressivo del lavoro. Che è notevole.

Parlando di percussioni e misura, cade veramente a fagiolo un altro cd in trio, in questo caso tutto percussivo, come Nonono Percussion Ensemble (Setola di Maiale), firmato a sei mani dall’americano Gino Robair e dai nostri Cristiano Calcagnile e Stefano Giust. Il lavoro, di taglio eminentemente contemporaneo, si muove attorno a suoni scarni, essenziali, a volte persino ritrosi, che amano circondarsi di ampie zone di silenzio e privilegiano comunque il pianissimo, il meditativo, il decongestionato.

Sempre in un dialogo a tre, ma con le percussioni abbinate a voce e contrabbasso (più elettronica), si svolge A Brief History of Time (nusica.org) dell’Entanglement Trio, ancora di taglio più contemporaneo che jazzistico, con aperture più teatrali (dette e cantate) da parte della voce (Beatrice Arrigoni) e scarti anche netti rispetto al tessuto di base.

Voce femminile sugli scudi ancora nei tre cd che seguono. Il primo è Lo racconta il mare (Tambora Music) del chitarrista Sabino De Bari, londinese d’adozione, che però vi omaggia la sua terra d’origine (Molfetta), con palpabili rimandi popolari, vocali (Diana Torti), quindi testuali (dialettali), e non, quindi fra canzone, jazz e camerismo (è all’opera un quartetto completato da una seconda chitarra classica e flauto, molto attivo). Lavoro suggestivo, mai banale.

Ancora da Molfetta (qui a tutti gli effetti) arriva Cypriana (Dodicilune), live di Nicola Pisani per grosso organico e altrettante ambizioni, dobbiamo dire servite degnamente, secondo una logica lirico-teatrale, spesso gioiosa, molto corale (in tutti i sensi), i cui momenti schiettamente jazzistici non fanno che arricchire una tavolozza che – pur su toni generalmente più lievi, ovviamente mediterranei, ma condividendone per esempio i voltapagina repentini e una serpeggiante epicità di fondo – riporta qua e là alla mente i gloriosi Centipede di Keith Tippett. E crediamo non sia complimento da poco.

 

A completare il comparto vocale, sempre su toni epico-teatrali, fra canto e narrazione, nonché uno strumentismo ricco e articolato, ecco Post Colonial Blues (New Ethnic Society), dedicato a Thomas Sankara, leader del Burkina Faso ucciso in giovane età, con le musiche composte da Marco Colonna (foto qui sopra) per un sestetto con la voce di turno (Giulia Cianca), tre fiati, basso e batteria. Di grande compattezza estetico-narrativa, il lavoro si esprime compiutamente nella dimensione-live, da cui del resto proviene (e per cui è stato concepito).

Ancora Colonna, stavolta accanto al contrabbasso di Silvia Bolognesi, è ai clarinetti in EraorA (Fonterossa), tête-à-tête di estrema eleganza e – diremmo – pudore, che non fa che convincerci una volta di più di trovarci di fronte a due delle personalità più significative emerse in questi ultimi (neanche così pochi) anni sulla scena nazionale di matrice improvvisativo-jazzistica. Il dialogo si sviluppa pieno ma mai verboso o eccessivo, generando un clima fecondo e comunicativo.

Un altro duo, svolto lungo binari più classici ma non per questo supini, è quello che unisce in Things to Say (Cam Jazz) la tromba di Flavio Boltro e il pianoforte di Fabio Giachino, entrambi piemontesi, dove i momenti più convincenti sono legati alle situazioni meno usuali, come per esempio in Salina, Hidden Smile, No Noise, consecutivi, e Tira e molla (undici i brani totali). Altrove prevale magari un po’ il mestiere, e una perizia strumentale, una padronanza della materia, comunque ammirevoli.

Piano e tromba sono singolarmente gli strumenti suonati (caso alquanto raro) da Dino Rubino, fresco artefice di Gesué (Tuk), album dedicato al padre, virtualmente in quartetto (col leader unicamente al piano) i cui momenti di maggior pregio, in un lavoro comunque di estremo buon gusto, sono legati per lo più alla presenza del bandoneon di Daniele Di Bonaventura, altro elemento di punta del jazz (da intendersi in senso quanto mai lato) italiano contemporaneo.
E con questo, per oggi, salutiamo.

Foto di Alberto Bazzurro (Barbiero).

 

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