Nona puntata, tutta dedicata alla voce e
ai suoi dintorni, per la rubrica curata da Alberto Bazzurro, che mensilmente ci
segnala le uscite più interessanti del jazz di casa nostra, zona i cui arcipelaghi
sono direttamente confinanti (e spesso dialoganti) con la miglior canzone
italiana.
Il pianeta-voce
è sempre stato un fenomeno un po’ a parte, nell’universo jazzistico:
abbeveratosi in prevalenza di sé, ha sempre costituito una sorta di binario
parallelo alla strada maestra, di cui ben di rado ha determinato l’evolversi.
Nel nostro piccolo, noi italiani possiamo vantare una di queste rarità: ci
riferiamo a Tiziana Ghiglioni (foto
in alto), che fin dagli anni ottanta guida gruppi propri in cui la voce
rappresenta un cardine non in quanto tale (cioè voce, con tutti gli annessi e
connessi, e quindi le piccole o grandi schiavitù-cliché), ma come perno
strutturale, elemento che ne determina – in base all’individualità specifica, a
una voracità espressiva ammirevole – le linee-guida, i tracciati, le scelte di
campo. A cavallo fra anni novanta e duemila, è pur vero che Tiziana ha iniziato
a vedersi più come cantante in quanto tale (suo pieno diritto, si capisce), ma
opere e progetti recenti ci rivelano che l’occhio iniziale – curioso, onnivoro
– ha ripreso il sopravvento.
E’ quanto ci
conferma il suo ultimo, notevole cd, A
MALe WALking in the CaulDRON (Splasch), il cui alternarsi, nel titolo, di
maiuscole e minuscole indica quale ne sia il destinatario: il grande pianista
scomparso Mal Waldron, di cui la
Ghiglioni
rilegge nove temi, uno dei quali “mischiato” con Jackie-Ing di Monk, che di Waldron fu sicura fonte ispirativa. Le
sono accanto sei artisti di livello (fra essi il violinista Emanuele Parrini,
il sassofonista Daniele Cavallanti e il batterista Tiziano Tononi) che sfornano
ottimi assoli ma sanno anche calarsi abilmente nel vociferante, a tratti quasi
solenne, clima collettivo, così tipico dei gruppi di Tiziana (e del resto anche di quelli
riconducibili alla coppia Tononi/Cavallanti, Nexus in testa).
Per questa
temperatura sempre partecipe, ricettiva, oltre che per la presenza di parlati
in alternanza ai cantati della Ghiglioni, che sa come sempre farsi spesso da
parte, accontentandosi di “suonare il gruppo”, e per il fatto di trovare fra gli autori dei testi
aggiunti alle musiche la firma di Amiri
Baraka (foto sotto), al secolo LeRoy Jones, saggista e poeta neroamericano
di straordinario rilievo (suo il celeberrimo Blues People, alias Il popolo
del blues, testo fra gli indispensabili della letteratura jazzistica),
questo disco ce ne fa venire in mente un altro, uscito da qualche mese, Akendegue Suite (RaiTrade), in cui
appunto Baraka è ospite del Dinamitri
Jazz Folklore del sassofonista russo-toscano Dimitri Grechi Espinoza, anche qui un gruppo piuttosto nutrito, un
ottetto (ancora con Parrini), anche se in soli quattro brani (su nove), dove
compare appunto il “poetry” di Baraka. Gli esiti, per la verità, non replicano
quelli del cd precedente, causa una certa tendenza alla sovraesposizione
sonora, a una verbosità e declamatorietà che non si devono tanto alla presenza
di Baraka, quanto proprio alla poetica di Grechi Espinoza (che con la
Ghiglioni
ha a sua volta collaborato, per esempio nell’ottimo progetto-Rotella). Un disco
molto “nero”, verrebbe da dire, con qualche eccesso di misura ma non senza
buoni momenti e una sicura coerenza di fondo.
Tratti simili si
ritrovano in un altro album, magari anch’esso sovraesposto, ma per timbri e
colori più che per veemenza e visceralità in quanto tali: Migranti (Egea) di Marco
Zurzolo, sassofonista napoletano che appartiene un po’ a quella genia di
sangui-misti che, risalendo fino a James Senese, annovera anche Daniele Sepe e
Enzo Avitabile. L’elemento-voce, nel disco specifico, è presenza tutto sommato
marginale (all’inizio e alla fine), ma è il clima di vociferio, di
multidirezionalità, di quantità di carne al fuoco, a farcelo avvicinare ad
“Akendegue Suite”. Qui gli umori sono molto più schiettamente etnico-popolari
(pensiamo al famigerato sud del mondo),
con le stimmate costanti di una danzabilità palpabilissima: ovunque la festa
prevale sulla corrosività. Fra i molti artisti coinvolti troviamo Baba Sissoko
come Mario Raja e Luca Aquino: una ben bizzarra – ma anche per ciò suggestiva –
infornata.
Dalla mala educacion – metaforica, s’intende –
di questi lavori, a un’educazione forse persino eccessiva: è quella che
caratterizza Un minuto dopo (Koinè)
della debuttante cantante romana Elisabetta
Antonini. Eleganza e ritegno sono in effetti i tratti più nitidi di un cd
in cui la voce è affiancata sempre dal piano di Alessandro Gwis e,
alternativamente, dalle ance di Gabriele Coen e Paul McCandless. Quattro su
undici sono temi di Enrico Rava a cui Marina Tiezzi ha aggiunto un testo. Estremamente
pudica un’altra opera prima, Painting on
Wood del leccese Stefano Mangia,
edita niente meno che dalla Leo Records. Il che può fuorviare: se infatti
l’etichetta londinese batte decisamente la strada dell’avanguardia, questo cd si
rivela invece alquanto prudente. Affiancano la voce di Mangia il piano di
Gianni Lenoci, il basso di Pasquale Gadaleta e la batteria di Marcello
Magliocchi, artisti certo adusi al rischio, ma qui, appunto, non inclini a
particolari azzardi. Due particolari: il disco è aperto da un brano intitolato Mal Waldron, e incontra il suo apice in Bone,
tema-capolavoro di Steve Lacy (di cui Waldron fu partner storico) che proprio
Tiziana Ghiglioni incise oltre vent’anni fa, con Lacy presente.
Il cerchio,
dunque, potrebbe chiudersi qui. Invece aggiungiamo un ultimo titolo, ancora di
area pugliese, Souldiesis (Koiné), inciso dall’omonimo, singolare ensemble di
undici unità: quattro voci femminili, altrettante maschili, e trio ritmico. Vi
trovano posto brani originali così come rielaborazioni, specie di matrice
popolare. Il trattamento è un po’ a pelo d’acqua, ma gli intrecci vocali non
mancano di appeal, anche se avrebbe giovato una maggiore varietà (qualche
ridondanza è evidente). Un disco, sia quel che sia, rotondo e ben confezionato.